Scenario e contesto di riferimento
In un contesto competitivo sempre più pressante e dinamico, le professioni basate sulle competenze hanno subìto un profondo cambiamento. Se prima il professionista (in particolar modo il commercialista) si differenziava sulla base della sua conoscenza in una determinata materia, adesso quello che lo contraddistingue è la sua conoscenza del cliente : quanto il professionista riesce a soddisfare un cliente sempre più esigente e informato. Non si tratta più del professionista inteso come consulente di fiducia e onnisciente, ma di una figura professionale specializzata. La diretta conseguenza di questi mutamenti si osserva nella remunerazione che oggi è molto più variabile (e mediamente più bassa) rispetto al passato .
In un contesto così polarizzato, tuttavia, non cambia solo il posizionamento del professionista, ma mutano anche tutti gli ambiti in cui lo stesso si trova a operare tanto nel mondo del consumo quanto in quello dei servizi. Il risultato è una polarizzazione dei bisogni e, quindi, del consumatore/cliente .
La massiccia disponibilità di informazioni (reperibili tramite internet) in merito alle caratteristiche di un bene o di un servizio e la semplicità con cui oggi è possibile concludere un acquisto (si pensi alla vendita online) hanno generato due figure di cliente. Da un lato il consumatore transazionale che, essendo iper-informato su tutte le alternative disponibili, è in grado di scegliere con estrema semplicità. Dall’altro, il consumatore consulenziale che, invece, ha bisogno di consigli e consulenza per poter concludere il suo acquisto.
Si comprende come la gestione
dell’organizzazione professionale (quali professionisti integrare, chi
dovrà occuparsi della relazione con i clienti e così via) sarà incentrata sul
tipo di cliente al quale ci si rivolge. È la cosiddetta Client Centered
Strategy , una strategia in base alla quale il cliente è al centro della
strategia di un’organizzazione perché è lui lo stakeholder più importante.
È con il cliente (soprattutto consulenziale) che bisogna tessere un rapporto di fiducia . Come? Attraverso l’equazione della fiducia secondo la quale occorre sviluppare elementi come la credibilità, l’affidabilità e l’intimità della propria organizzazione, riducendo al minimo l’egoismo, cioè il ritorno personale.
Perché gestire un’organizzazione professionale
Un’organizzazione
professionale è un insieme di persone dotate di specifiche competenze che, coordinandosi
tra loro, offrono prodotti o servizi ai loro clienti con l’obiettivo di
accompagnarli nella risoluzione di specifiche esigenze.
Solitamente due o più
professionisti decidono di lavorare insieme (dando vita a un’organizzazione
professionale) per motivi diversi. Potrebbero voler integrare competenze
diverse così da offrire ai clienti un servizio più completo oppure la loro
intenzione potrebbe essere semplicemente quella di ridurre i costi su alcune
attività dell’organizzazione o, ancora, di aumentare il proprio posizionamento
dando vita a un’organizzazione professionale.
Tuttavia, come accennato, negli ultimi anni è cresciuta la pressione sul lavoro per i professionisti . Da un lato si ritrovano a operare in un contesto normativo sempre più fitto e dall’altro si interfacciano con clienti sempre più esigenti che, spesso, si rivolgono al professionista come se fosse un venditore ordinario, qualcuno che offre servizi base. Questo comporta un aumento dei ritmi di lavoro, ma si guadagna sempre meno .
È chiaro, allora, che gestire
un’organizzazione professionale non è così semplice. Affinché questa funzioni
in modo corretto occorre coordinare i professionisti che ne fanno parte,
tenere a bada le tensioni che potrebbero sorgere nel lavoro quotidiano e
restare focalizzati sui bisogni dei clienti. Ma per gestire correttamente la
propria organizzazione, bisogna definirla soffermandosi su tre ambiti: clienti,
servizi offerti, professionisti e collaboratori. Esistono, infatti, quattro
tipologie di organizzazioni professionali.
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Le organizzazioni professionali: tipologie e implicazioni
Tipicamente si individuano quattro
modelli di organizzazione professionale . Ogni organizzazione, infatti, si
contraddistingue per determinate caratteristiche dettate dalla struttura, dalle
risorse professionali coinvolte e da elementi economici come il prezzo dei
servizi offerti e i margini di profitto. Un’organizzazione professionale
potrebbe essere più composita di un’altra, ma è da escludere che vi possa
essere una sovrapposizione tra tipologie diverse di organizzazione. È
necessario, dunque, definire in quale modello si identifica un’organizzazione
per poterla gestire al meglio. Ecco un elenco riassuntivo.
Organizzazione di commodity . È un’organizzazione professionale che si propone di risolvere esigenze di routine dei clienti e che, quindi, offre un servizio altamente standardizzato (ad esempio il servizio di domiciliazione) a basso costo. Il team di professionisti che lavora all’interno di questo tipo di organizzazione è focalizzato sulla corretta esecuzione di un servizio semplice e ripetitivo più che su specifiche abilità professionali. È per questo che per aumentare l’efficienza di questa organizzazione basterà implementare il servizio offerto rendendolo più strutturato.Organizzazione procedurale . È un’organizzazione professionale che si contraddistingue perché offre un servizio costituito da più attività correlate tra loro (ad esempio il servizio di gestione della contabilità). È un tipo di organizzazione, quindi, in cui non basta essere efficienti, ma occorre essere anche molto competenti su più fronti. Organizzazione basata sull’esperienza . È un’organizzazione professionale che offre supporto in ambiti rilevanti e delicati che il cliente conosce poco (ad esempio il servizio offerto da uno studio legale o di commercialisti). In questi casi è l’esperienza maturata nel tempo a fare la differenza e a spingere il cliente a rivolgersi a un’organizzazione piuttosto che a un’altra.Organizzazione con focus su nuove sfide . È un’organizzazione professionale deputata a gestire un problema nuovo con implicazioni importanti per il cliente (ad esempio i servizi di consulenza e gestione digitale come i siti e-commerce, il Metaverso, le monete virtuali). In questi casi le risorse professionali dell’organizzazione hanno abilità molto elevate che consentono di risolvere esigenze nuove tanto per il cliente quanto per loro stessi.
Come anticipato, le quattro
tipologie di organizzazioni professionali si distinguono anche per le risorse
coinvolte e per il livello di pricing (prezzi) dei servizi offerti e
di margini di profitto . Si osserva, infatti, che nelle organizzazioni di
commodity e in quelle procedurali si hanno prezzi e margini di profitto più
bassi. Questo avviene perché i servizi offerti richiedono un livello meno alto
di professionalità delle risorse professionali coinvolte.
Nelle organizzazioni professionali basate sull’esperienza e in quelle con un focus sulle nuove sfide, invece, non solo saranno più alti i prezzi dei servizi offerti, ma anche i margini di profitto. Si tratta, come spiegato, di organizzazioni che richiedono un alto livello di preparazione e competenza e che offrono un servizio che potremmo definire non replicabile.
Le quattro tipologie di organizzazioni professionali
Tutto questo ha un impatto inevitabile sulla struttura dell’organizzazione stessa. I primi due tipi di organizzazione, infatti, richiedono una struttura molto piatta in cui operano molti collaboratori e pochi soci che lavorano in un contesto caratterizzato da un’ampia capacità organizzativa.
Organizzazioni “piramidali” piatte e grande capacità organizzativa dell’apice nel caso di servizi commodity e procedurali
Nelle altre due tipologie di organizzazioni, invece, si ritroveranno a operare molti professionisti e pochissimi collaboratori perché il livello di competenza richiesto è tale per cui è necessario che i soci si confrontino costantemente per risolvere situazioni delicate e con peculiarità differenti.
Organizzazioni “piramidali” alte e vasta disponibilità di esperienza e competenza nel caso di servizi “esperienza” e “nuove sfide”
La profit formula delle organizzazioni professionali
Se, come spiegato, nella
struttura di un’organizzazione professionale si deve tenere in considerazione
il margine di profitto, sarà utile essere in grado di calcolare la profittabilità
dell’organizzazione stessa. Per farlo ci viene in soccorso la cosiddetta profit
formula in base alla quale:
Profittabilità =
Margine di profitto * Produttività * (1+ Leva)
Fondamentalmente il fatturato di
un’organizzazione professionale si calcola dividendo i ricavi realizzati per
i soci che appartengono all’organizzazione . Ma a questo si aggiungono anche
altri fattori variabili come:
la marginalità di cosa si vende, ossia la differenza tra il prezzo di vendita del prodotto e i costi sostenuti per produrlo;il livello di produttività dei soci ;il numero di collaboratori rispetto ai soci.
Ecco, allora, che la formula della profittabilità può intendersi così:
La profit formula delle organizzazioni professionali
La profittabilità, dunque, si calcola considerando il profitto
prodotto sui ricavi ottenuti, i ricavi fatti da ogni professionista
dell’organizzazione e il numero di soci presenti per ogni professionista .
Per
comprendere meglio il concetto, si può dire che i soci “fanno leva” sul
capitale umano assumendo professionisti non soci e aumentando in questo modo il
capitale umano che può essere impiegato nell’organizzazione generando così
fatturato.
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In
questo si individua la differenza tra le organizzazioni professionali e quelle
commerciali. Nelle prime, infatti, il focus è sul capitale umano (che lavorando
genera fatturato), mentre nelle organizzazioni commerciali il focus è sul
capitale finanziario perché i proprietari “fanno leva” sul capitale.
A
questo punto è bene chiarire che è possibile mettere in campo azioni per
migliorare la profittabilità dell’organizzazione professionale . Sono
diverse e ognuna di esse ha un impatto differente sull’organizzazione, tra le
più efficaci abbiamo:
Aumentare le tariffe Aumentare le vendite Investire per offrire
nuovi servizi Investire in software
per l’efficienza organizzativa Ridurre/eliminare
servizi non profittevoli Ridurre/eliminare
clienti non profittevoli Abbassare i costi
generali di studio Aumentare
l’utilizzazione/produttività delle risorse/collaboratori
A
seconda dell’organizzazione di riferimento sarà più o meno facile implementare
alcune attività e gli effetti/benefici potranno essere diversi. Sulla base di
riscontri sul campo, in linea generale, si considerano particolarmente efficaci
la riduzione/eliminazione di servizi e di clienti non
profittevoli per l’organizzazione professionale.
Spesso, infatti, per essere
maggiormente efficaci occorre ripensare la propria attività. Questo può anche
significare “ridurre/ eliminare clienti non profittevoli” e quindi fare in modo
che un cliente storico (ma non profittevole) non sia più gestito da voi, ma ad
esempio sia affidato a un vostro collaboratore junior.
Delegare per la redditività e la crescita dei giovani
Un’organizzazione
professionale funziona grazie alle competenze delle persone che vi lavorano. È
per questo motivo che delegare loro alcune attività significa accrescere
il funzionamento dell’organizzazione stessa sia nel medio periodo (in
termini di continuità dell’attività), sia nel lungo periodo. I soci di
un’organizzazione professionale, infatti, devono pensare al futuro della loro
attività, al passaggio di testimone che – prima o poi – dovrà esserci.
Potrebbe
essere proprio un giovane professionista ad acquisire una quota
dell’organizzazione. Perciò è importante lavorare ogni giorno per fare in modo
che quel giovane cresca professionalmente, si allinei ai valori
dell’organizzazione e – in futuro – ne entri a far parte come socio.
La
delega ai giovani professionisti delle
attività interne all’organizzazione è una scelta strategica . Spesso, purtroppo, è uno strumento che viene
tralasciato e svalutato. E invece la delega accresce il clima di fiducia
all’interno dell’organizzazione. Delegare, infatti, significa riporre fiducia
nel giovane e promettente professionista che lavora nell’organizzazione. In
questo modo non solo si farà in modo che lavori più serenamente, ma lo si
motiverà a lavorare meglio e quindi a essere più produttivo. In poche parole delegare vuol dire aumentare la redditività .
Un dipendente motivato è un lavoratore che genera ricchezza per l’organizzazione perché porta con sé nuove competenze, acquisisce nuovi clienti e, nel lungo termine, può persino diventare socio dell’organizzazione. È un circolo virtuoso che si innesta a favore di tutti: del dipendente, del professionista e dell’organizzazione professionale.
In questo modo non si fa altro che alimentare le prospettive di vita dell’organizzazione. Come anticipato, infatti, la delega non porta frutti solo nel medio periodo ma consente anche di pensare al futuro dell’organizzazione.
Quando arriverà il momento di vendere la propria
attività le alternative saranno due. Da un lato è possibile venderla a grandi
studi, ma le implicazioni che questo comporta la rende la scelta meno
conveniente. Dall’altro, invece, è possibile vendere a praticanti e
professionisti che già lavorano all’interno dell’organizzazione. Se la si pensa
in questi termini, si comprende come si sia più propensi e stimolati a
ricorrere allo strumento della delega per allineare nel tempo i valori del
giovane professionista a quelli dell’organizzazione.
Questo processo di allineamento non deve essere
monolaterale. È indispensabile, infatti, coinvolgere i propri collaboratori
anche chiedendo loro dei feedback sul lavoro svolto e sull’operato
dell’organizzazione. Non si tratta solo di un modo per tastare il loro umore,
ma anche di un’opportunità per recepire proposte e idee per migliorare
l’attività e per comprendere quali sono le caratteristiche che rendono una
determinata organizzazione professionale attraente per clienti e nuovi talenti.
Un’idea per iniziare ad ascoltare i collaboratori, coinvolgendoli davvero nella vita dell’organizzazione professionale potrebbe essere quella di sottoporre loro un questionario oppure di fare incontri periodici one to one. Potete chiedere feedback di ogni genere, se volete è possibile chiedere pareri in forma anonima, incaricare una persona di occuparsi di questo oppure sfruttare le piattaforme digitali come Surveymonkey o Google module per distribuire a tutti il questionario.
I cinque comandamenti del professionista
Essere un professionista è una
vocazione prima ancora che un mestiere. Si tratta di riuscire a coordinare le
risorse interne in modo tale che rendano nel migliore dei modi e di assicurare
una gestione dell’organizzazione che assicuri profitto e successo.
Per tutte queste ragioni un professionista è chiamato a seguire alcune linee guida nella sua attività quotidiana. In questa sede parleremo, più propriamente, dei cinque comandamenti del professionista . Ogni socio, infatti, deve essere da esempio per le risorse professionali e per i collaboratori da cui è circondato. Vediamo quali sono i “comandamenti” da seguire.
1.Imparare per acquisire nuove abilità
Essere un socio di
un’organizzazione professionale non significa smettere di imparare. Tutt’altro,
perché un buon socio è colui che è da esempio ai propri collaboratori. Per
questo motivo, ogni professionista deve imparare continuamente .
L’obiettivo è accrescere le abilità nel proprio lavoro .
Non è consentito, infatti,
credere di essere i massimi esperti o i migliori nel proprio settore di
riferimento. Anche laddove sia davvero così, infatti, il capitale di competenza
perderà inevitabilmente valore con il tempo. L’unico modo per evitare che
questo accada, dunque, è non rinunciare alla propria formazione
professionale .
2.Gestire la crescita professionale
Imparare significa crescere
professionalmente. Ma essere un buon professionista significa essere in grado
di gestire questa crescita professionale. Ciò vuol dire non concentrarsi solo
sui propri clienti e sulla quantità di lavoro che questi richiedono, ma dedicare
tempo alla qualità di questa crescita professionale .
Un socio, infatti, deve essere
consapevole del fatto che il successo di un’attività professionale dipende
anche dal proprio percorso di crescita perché implementando le proprie
competenze si arricchisce l’organizzazione professionale.
3.Dedicarsi allo sviluppo di nuove opportunità
Se c’è un’attività che richiede
assolutamente di essere svolta in prima persona dal socio, quella è dedicare
del tempo a nuove opportunità di sviluppo . Investire le proprie energie
per occuparsi, ad esempio, di nuovi modelli di marketing e di vendite per
migliorare il prestigio della propria organizzazione non è un’attività
delegabile ad altri.
Si richiede, infatti, che il
socio si impegni in attività simili in prima persona. È un segno di
riconoscimento della fiducia che il cliente ripone nel professionista.
4.Sviluppare un percorso di crescita dei propri collaboratori
Se un’organizzazione
professionale si basa sulle persone che la compongono, allora è indispensabile
investire su di loro. È necessario che il professionista si dedichi
personalmente allo sviluppo delle sue risorse delineando insieme ad esse
obiettivi chiari di carriera e garantendo, in questo modo, la reale crescita
professionale dei collaboratori.
5. Coltivare il proprio portafoglio clienti
Un errore da evitare
assolutamente è trascurare il portafoglio clienti esistente. Nell’ottica di
dedicarsi ad attività di sviluppo costante, infatti, è auspicabile avere
cura dei rapporti con i clienti esistenti .
Non bisogna sottovalutare che essi possono offrire nuove opportunità all’organizzazione professionale e, inoltre, rappresentano la chiave per il posizionamento della stessa all’interno del network di riferimento.
Come far crescere collaboratori e professionisti all’interno dell’organizzazione
Un’organizzazione professionale è una macchina i cui ingranaggi
sono rappresentati dalle persone che ci lavorano. Le loro competenze e la loro
professionalità sono il carburante necessario affinché la macchina prosegua il
suo percorso. Un aspetto non trascurabile, però, risiede nell’affidamento di
determinate attività a professionisti e collaboratori che devono avere le
giuste competenze per svolgerle.
Talvolta, infatti, può essere necessario esternalizzare alcune mansioni a collaboratori che siano esperti di una certa materia perché i professionisti che lavorano all’interno dell’organizzazione professionale potrebbero non avere le giuste competenze. L’obiettivo, allora, deve essere quello di formare costantemente le risorse interne e averne a cuore la crescita professionale , affinché tutto possa essere svolto dalle persone che già prestano il loro servizio per l’organizzazione professionale.
In questo modo non solo aumenta la profittabilità dell’organizzazione, ma anche il suo prestigio. Vediamo allora come far crescere queste persone.
La cooptazione per far crescere le persone
C’è un solo modo per far crescere le persone all’interno di
un’organizzazione professionale ed è quello della cooptazione . Come in
qualsiasi professione intellettuale, infatti, l’unico modo per imparare
davvero è la pratica . Si parla propriamente di staffing , cioè di
assegnazione di pratiche alle persone: solo assegnando loro pratiche e facendo
in modo che le portino a termine, quelle persone potranno imparare.
Con il tempo, il risultato sarà che queste persone acquisteranno una certa capacità professionale che, oltre a rappresentare l’esito di un percorso di crescita personale, sarà anche motivo di sviluppo per l’intera organizzazione.
Lo staffing: dalla pianificazione al monitoraggio delle attività
Assegnare nuove pratiche ai professionisti e ai collaboratori aumenta la loro motivazione. Un dipendete motivato lavorerà meglio e questo sarà apprezzato anche dal mercato che riconoscerà la qualità del lavoro dell’organizzazione. A tal fine l’organizzazione dovrebbe consentire che i propri collaboratori e professionisti lavorino con i clienti sulle pratiche in corso, ma soprattutto che siano guidati da un mentore.
È indispensabile, dunque, che un’organizzazione professionale possa contare su una o più persone (in questo caso si parlerebbe di un comitato ) che gestiscano direttamente lo staffing di collaboratori e professionisti. Il socio mentore (o il comitato) ha il compito di pianificare le attività . Questo significa che dovrà definire i processi che regolano le varie attività e assegnare ciascun processo a uno o più collaboratori/professionisti stabilendo un tempo entro il quale portarle a compimento. Successivamente occorrerà monitorare lo stato di quei processi tenendo traccia delle attività in corso, di quelle in ritardo e di quelle completate.
Tenere alta la motivazione
Come accennato, l’assegnazione di pratiche genera motivazione e la
motivazione, a sua volta, genera profitto e autorevolezza. Per tenere sempre
alta questa motivazione, tuttavia, è utile ascoltare i propri dipendenti. Da
una ricerca condotta tramite interviste ai dipendenti di diverse organizzazioni
sono state elaborate dieci buone regole per mantenere sempre alta la
motivazione delle proprie risorse.
Fornire
obiettivi chiari Dare
feedback puntuali Celebrare
prontamente i loro successi Coinvolgerli
nel processo decisionale Chiedere
la loro opinione Fornire
autonomia nel lavoro per lasciare libertà di azione Responsabilizzarli
sui risultati Tollerare
l’impazienza Fornire
diverse opportunità di lavori e attività Tenerli
informati sugli obiettivi dell’organizzazione
Tollerare l’impazienza dei giovani talenti è certamente tra le più importanti. Al contrario, condannare l’impazienza e la voglia di fare delle figure più giovani, potrebbe scoraggiare queste risorse. Tollerarne persino gli errori, invece, le stimolerà a migliorare.
La spirale della motivazione
Cosa vuol dire associarsi ed essere associato
Se un’organizzazione
professionale è costituita da persone, vuol dire che la sua attività e la sua
durata nel tempo saranno regolate da “cicli di vita” interni. In particolare,
nelle organizzazioni si assiste a quello che viene comunemente definito processo
di associazione .
È un percorso graduale che inizia
quando i collaboratori sono semplici apprendisti e si conclude quando quegli
stessi apprendisti acquisiscono lo status di soci dell’associazione
professionale.
Nel mezzo c’è il passaggio da apprendista a professionista . In molte professioni questo passaggio si realizza formalmente con l’esame di abilitazione, ma di fatto un apprendista può definirsi un professionista quando inizia a curare in maniera autonoma i rapporti con i clienti. Questo avviene dopo una fase in cui qualcuno, il più delle volte un collega senior, trasferisce competenze e conoscenze a quel giovane apprendista formandolo e preparandolo ad essere autonomo nella gestione delle attività.
Il processo di associazione
Il processo di associazione è un
processo in divenire che parte fino dalla sua assunzione e continuerà ad andare
avanti sino a che quel professionista non diventerà socio dell’organizzazione
professionale condividendone i valori che la contraddistinguono. Ma ci sono
alcuni elementi ben specifici che qualificano un socio e che si maturano nel
tempo.
La chiave è dare via via nuovi ruoli alle risorse valide all’interno della propria organizzazione in modo che il processo di associazione sia graduale e le risorse acquisiscano nel tempo un ruolo ben definito.
Quando il collaboratore sarà
socio poi avrà le seguenti qualifiche:
partecipa agli utili e alle perdite dell’organizzazione , assumendosi – quindi – i rischi dell’attivitàha un ruolo stabile perché, salvo casi eccezionali, si è soci dell’organizzazione per sempre è autonomo nell’attività lavorativapartecipa alle decisioni strategiche e/o rilevanti dell’organizzazione professionaleha compensi maggiori ottiene uno status e un riconoscimento interno all’organizzazione ottiene uno status e un riconoscimento esterno all’organizzazione.
Si comprende come questi sette elementi non possono essere acquisiti dall’oggi al domani. Al contrario, sono requisiti che si maturano con il tempo . È compito dell’organizzazione professionale, allora, favorire questo processo scegliendo in che ordine si intende far conseguire questi obiettivi al giovane professionista affinché in futuro possa acquisire le quote dell’organizzazione diventandone a tutti gli effetti un socio.
Come si definisce la governance dell’organizzazione professionale
Non è banale tracciare una governance dell’organizzazione professionale e stabilire ruoli ben chiari a cui attribuire funzioni indispensabili per il buon funzionamento di uno studio. Per comprendere meglio cosa si intenda per governance , torna utile paragonare la governance di un’organizzazione al governo di uno Stato che si regge su tre poteri: quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario.
Allo stesso modo anche in un’organizzazione con più di due soci occorre regolare queste funzioni individuando una rappresentanza di soci che tracci la strategia dell’organizzazione, come avviene in un Parlamento, che metta in atto le decisioni prese, come fa un Ministero, e che decida, come un giudice, sulla distribuzione dei profitti.
Per quanto piccola sia un’organizzazione professionale, se è un’organizzazione, ad esempio formata da almeno 3 soci, occorre prendere decisioni su come svolgere le tre funzioni chiave della governance:
La funzione legislativa
Dalla governance legislativa
dipende il successo dell’organizzazione nel lungo termine. Si tratta di un
momento di confronto tra i soci che, in assemblee periodiche, discutono delle
strategie e delle scelte da adottare per il funzionamento dell’organizzazione
nel lungo periodo.
Così come l’indirizzo politico di un Paese dipende dalle decisioni del suo Parlamento, le riunioni dei soci consentono il buon funzionamento dell’organizzazione professionale. Il rischio che simili decisioni siano prese da una sola persona è quello di creare un clima di scontento generale tra soci e dipendenti.
La funzione esecutiva
A rendere esecutive le decisioni
prese in assemblea, invece, sarà il socio gestore. Si tratta della funzione
esecutiva che l’assemblea dei soci attribuisce periodicamente a un socio. È
bene, infatti, che ci sia un criterio di rotazione alla base di questo
incarico.
La gestione dello studio richiede un consistente investimento di tempo (almeno il 20% delle ore lavorative) e per questo dovrebbe essere portata avanti da una figura esperta ed autorevole.
La funzione giudiziaria
La governance giudiziaria ,
infine, è deputata a regolare la distribuzione dei profitti tra i soci. Si
tratta di un compito delicato in quanto consiste nello stabilire i criteri di
ripartizione dei profitti che verranno adottati all’interno
dell’organizzazione.
Per evitare malintesi, ma soprattutto una personalizzazione nella scelta del metodo di divisione dei ricavi, è consigliabile assegnare la governance giudiziaria a più di un socio o, addirittura, ricorrere a un consulente esterno che dia un parere terzo e incondizionato sulle modalità da applicare.
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Come si dividono i profitti
Se c’è un’attività più delicata
delle altre all’interno di un’organizzazione professionale, quella è la ripartizione
dei profitti , una competenza propria di chi esercita la funzione
giudiziaria, cioè di chi si occupa praticamente di decidere i criteri di
ripartizione degli utili.
In linea di massima si può affermare che esistono due modalità per dividere i profitti tra i soci , ma entrambe possono essere mitigate da alcune variazioni che, di fatto, generano nuove combinazioni di modalità di ripartizione degli utili.
Le modalità di divisione dei profitti
In sede di ripartizione dei
profitti, si può optare per due macro-soluzioni:
Eat what you kill : è la soluzione utilizzata dalle grandi società di consulenza in base alla quale ogni socio porta a casa i profitti (tolti i costi) generati dai propri clienti . È un meccanismo che genera molta competizione interna e che apre al rischio per cui se un socio lascia l’organizzazione potrebbe portare con sé i suoi clienti sottraendoli allo studio.Equal sharing : secondo questa soluzione invece, gli utili vengono divisi in parti uguali tra tutti i soci , senza nessuna differenza in merito all’attività svolta.
Si comprende come quelle appena
illustrate sono modalità di ripartizione dei profitti che si pongono agli
antipodi l’una all’altra. È improbabile, infatti, che un’organizzazione
professionale propenda per una sola soluzione.
È più usuale, invece, che la
modalità scelta sia incline a una delle due soluzioni, ma tenga conto di criteri
che la mitigano . Vediamo qualche esempio:
distribuire il 50% degli utili al singolo socio (in base al profitto generato) e di suddividere in parti uguali il restante 50%; riconoscere una percentuale a chi ha svolto un lavoro utile all’organizzazione (es. un socio autore di una pubblicazione di prestigio); per evitare il rischio legato alla prima modalità di suddivisione dei profitti (eat what you kill), è possibile stabilire che ogni cliente sia seguito da almeno due soci e che i profitti vengano ripartiti in base a un accordo tra i soci stessi; una percentuale del profitto può essere tenuta da parte e distribuita proporzionalmente all’apporto che i soci hanno dato all’organizzazione.
Dividere i profitti in base al tipo di socio
Nella ripartizione dei profitti, è utile tenere anche in conto che esistono tipi diversi di soci a cui distribuire gli utili . Detto in altro modo, se si assume che un socio medio (socio A) percepisce un profitto pari a 100, bisogna stabilire quale sarà il profitto da assegnare a soci che siano al di sopra o al di sotto del socio medio in termini di produttività. Insomma, nella distribuzione degli utili tra soci può essere conveniente premiare le performance di ciascuno .
Si tratta di uno dei temi che
deve essere affrontato nell’assemblea dei soci (funzione legislativa). In
quella sede, infatti, i soci non solo devono stabilire quali siano i criteri
che determinano una variazione del profitto finale , ma devono anche dare
un valore a quei criteri .
Tendenzialmente, ad esempio, l’elevato fatturato generato e una buona reputazione esterna sono caratteristiche di un socio che vengono premiate molto in sede di distribuzione degli utili.
Archetipi di professionista/socio dell’organizzazione professionale
Come valorizzare, vendere, comprare quote dell’associazione
Quando un’organizzazione professionale funziona bene acquista valore. Si creano così i presupposti, in ottica futura, per poterla vendere. La vendita di quote di un’organizzazione professionale è da considerare non solo come un esito fisiologico, ma anche come un’opportunità di sviluppo dell’organizzazione stessa. Sin dal momento in cui un nuovo socio entra nell’organizzazione, infatti, è bene che inizi a pensare a chi comprerà a sua volta la sua quota e a come lo studio possa diventare più grande così da garantire all’organizzazione maggiore valore futuro.
Negli ultimi anni si osserva un trend in materia di vendita dell’organizzazione professionale. Sempre più spesso, infatti, si assiste alla vendita di quote a persone esterne all’organizzazione.
Tradizionalmente però, sono due le strade perseguibili:
La vendita del pacchetto clienti a uno studio
più grande La vendita di quote a collaboratori e
professionisti interni
La seconda opzione corrisponde all’esito naturale del processo di associazione. Ma vendere una quota dell’organizzazione a un nuovo potenziale socio implica una serie di considerazioni e di aspetti da valutare tanto per il nuovo socio quanto per i soci già presenti.
Considerazioni sull’acquisto e sulla vendita
Si immagini che venga proposto a
un giovane e brillante professionista di acquistare una quota
dell’organizzazione professionale perché negli anni si è allineato ai valori
dello studio, ha generato profitto curando i suoi clienti e ha anche portato
importanti novità all’interno dell’organizzazione. Insomma, si tratta di un giovane
professionista in possesso di tutti quei sette elementi che lo
qualificherebbero come socio, ma che deve valutare se per lui sia conveniente
diventare socio.
Tra gli aspetti da tenere in
considerazione c’è il valore della quota . È preferibile, infatti, che le
quote siano divise in parti uguali tra tutti i soci così da avere un rapporto
paritario all’interno dell’organizzazione.
In secondo luogo, non meno rilevante, è il prezzo di acquisizione della quota (e – di conseguenza – una previsione economica sui tempi per rientrare nella spesa sostenuta). Può capitare che il giovane e brillante professionista non abbia le risorse economiche per sostenere la spesa. In questi casi si può valutare di contrarre un debito figurato con la società restituendo l’importo man mano: ciò significa che in sede di divisione dei profitti il nuovo socio lascerà una parte dei suoi compensi a titolo di restituzione del debito. C’è da dire, tuttavia, che si tratta di un debito figurato. Per questo si preferisce una seconda strada: fare in modo che la società co-garantisca il debito del giovane professionista che, in questo modo, sarà anche più incentivato a restituire quanto avuto per entrare nell’organizzazione.
Dal punto di vista professionale, poi, il potenziale nuovo socio non può trascurare il timore che il suo ruolo di socio non gli dia l’autonomia necessaria per proseguire quel percorso di innovazione avviato all’interno dell’organizzazione. Allo stesso modo, farà parte della sua valutazione anche il tipo di rapporto che ha maturato con i soci preesistenti.
A tal proposito, anche i soci
preesistenti dovranno analizzare una serie di aspetti. In primis, quelli di
natura economica perché l’ingresso di un nuovo socio implica un
ridimensionamento delle quote di tutti e – quindi – una perdita economica in
termini di profitto. Ma, in definitiva, è solo uno l’interrogativo da porsi in
questi casi ovvero se sia vantaggioso l’ingresso di un nuovo socio. Nel caso di
specie la risposta sarebbe affermativa perché il giovane professionista ha già
dato dimostrazione di accrescere il profitto dell’organizzazione e questo
significa che potrà continuare a farlo anche nelle vesti di socio.
Ma solo un’attenta analisi di tutti questi aspetti (qui ne abbiamo citato solo alcuni) consente di fare la scelta migliore, senza però dimenticare che – a volte – una piccola dose di rischio può fare la differenza.