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Revoca e impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo 2024: forma, modalità, costi e tempi

L’aver comminato un licenziamento illegittimo espone il datore di lavoro all'impugnazione da parte del dipendente, il quale chiederà il risarcimento del danno subito e, in talune ipotesi, anche la reintegrazione nel proprio posto di lavoro. Di seguito esaminiamo le regole per l’impugnazione e la possibilità concessa al datore di revocare il licenziamento prima intimato.

Regole generali sulla revoca del licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Prima delle modifiche introdotte dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (cd. Riforma Fornero), la revoca del licenziamento era possibile solo se essa giungeva nella sfera di conoscenza del lavoratore prima che gli fosse pervenuta la comunicazione di recesso vera e propria. Così, per esempio, nel caso di un licenziamento comunicato a mezzo raccomandata inviata il 1° febbraio e giunta al lavoratore il giorno 5 febbraio, era ritenuta valida una revoca spedita a mezzo telegramma, purché questa fosse stata consegnata nelle mani del dipendente prima del giorno 5 di cui appena sopra. In alternativa, la revoca giunta al destinatario solamente dopo l’avvenuta consegna della lettera di licenziamento, doveva essere accettata da parte del lavoratore.

Oggi, per tutti i dipendenti non soggetti al contratto a tutele crescenti, l’articolo 18, co. 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dispone che, nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo. Tale disposizione, come prevede il comma 8 del medesimo articolo, riguarda tutti i datori, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati.

Per i lavoratori soggetti al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tutele crescenti, invece, opera l’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, il quale prevede che nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente decreto.

Come ben si evince le due disposizioni sono sostanzialmente analoghe.

Revoca del licenziamento per GMO: termini ed esempi

In pratica, quindi, vale quanto segue:

  • il lavoratore ha 60 giorni di tempo – di calendario, non lavorativi – da quando ha ricevuto la comunicazione di licenziamento per procedere alla sua impugnazione;
  • il datore di lavoro ha 15 giorni di tempo, sempre di calendario, da quando ha ricevuto la comunicazione dell’impugnazione del licenziamento per poterlo revocare (si vedano gli esempi di cui alla tabella che segue). Tale termine riguarda la data entro la quale il datore deve inviare la comunicazione di revoca, a prescindere dal giorno (anche successivo al 15°) in cui il dipendente materialmente la riceve (Cass. Ordinanza 14 giugno 2024, n. 16630).
Ricezione licenziamento Termine per impugnare Data impugnazione Termine per revoca Data
di revoca
Conseguenze
1° marzo 30 aprile30 aprile 15 maggio 15 maggio Tutto OK
1° marzo 30 aprile 31 marzo15 aprile 16 aprileLa revoca è inefficace

Nel caso da ultimo ipotizzato nel nostro esempio, tale situazione (ossia la revoca comunicata in ritardo), come già avveniva in passato, potrebbe essere sanata solo dall’eventuale accettazione – del tutto volontaria – da parte del dipendente, che potrebbe preferire di riprendere servizio in azienda piuttosto che procedere all’impugnazione secondo le regole ordinariamente previste.

Revoca del licenziamento per GMO: è obbligatoria la forma scritta?

La giurisprudenza, fermo che per la comunicazione di licenziamento è assolutamente obbligatoria la forma scritta, ha più volte precisato che tale requisito formale non riguarda, invece, la sua revoca da parte del datore di lavoro, che può quindi disporla anche con una semplice telefonata (Cass. 7 febbraio 2019, n. 3647; Cass. 18 novembre 1997, n. 11467).

In ogni caso, per prudenza, una missiva scritta è certamente da preferirsi. Inoltre, il datore potrebbe utilmente revocare il licenziamento ancora prima che questo sia stato impugnato da parte del dipendente (così Tribunale di Vicenza 20 marzo 2015).

Primo termine di impugnazione di un licenziamento per GMO

L’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come da ultimo modificato da parte della Riforma Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92), dispone che, nel caso che ci interessa, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto a impugnare il licenziamento stesso.

Peraltro, secondo una recente sentenza di merito, la decadenza di cui all’articolo 6 della legge n. 604/1966, non è impedita dalla mera trasmissione al datore di lavoro, tramite posta elettronica certificata, da parte del difensore, della comunicazione cartacea di impugnativa di licenziamento redatta e sottoscritta in modo non digitale, poiché essa certifica l’avvenuta spedizione e ricezione della comunicazione, con conseguente individuazione certa del mittente e del destinatario, ma non la conformità degli atti allegati, che devono essere necessariamente sottoscritti digitalmente per rivestire il valore di atto scritto (Trib. Monza, ordinanza 29 gennaio 2020).

ESEMPI PRATICI SUL PRIMO TERMINE DI IMPUGNAZIONE

Licenziamento Data impugnazione Data impugnazione Data impugnazione
1° marzo 2021 1° maggio 2021 31 marzo 2021 30 aprile 2021
Conseguenze Decadenza per superamento del termine di 60 giorni Il 1° aprile inizia a decorrere il 2° termine di 180 giorni per depositare il ricorso o chiedere la conciliazione o l’arbitrato Il 1° maggio inizia a decorrere il 2° termine di 180 giorni per depositare il ricorso o chiedere la conciliazione o l’arbitrato

Secondo termine di impugnazione di un licenziamento per GMO

L’articolo 6, co. 2, primo periodo, della legge 15 luglio 1966, n. 604, dispone che l’impugnazione – anche ove regolarmente effettuata entro il termine di 60 giorni di calendario a partire da quello in cui il lavoratore ha ricevuto la comunicazione scritta dell’atto di licenziamento – è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, in alternativa tra loro, da uno dei seguenti atti:

  • deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro;
  • comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione;
  • comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di arbitrato;

ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso.

E qui va fatta qualche precisazione. La norma prevede che, dopo aver impugnato entro 60 giorni, nei successivi 180 di calendario, il lavoratore ha 3 possibilità, ossia: chiedere direttamente l’intervento del giudice, ovvero chiedere al datore di lavoro di espletare un tentativo di conciliazione oppure che sia costituito un collegio arbitrale.

Se la strada scelta è quella del giudizio, la vertenza passa direttamente nelle “mani” del tribunale che, in ogni caso, nella prima udienza, esperisce un tentativo di conciliazione. Se, invece, il lavoratore preferisse la via della conciliazione, l’avvio del tentativo potrebbe essere accettato o rifiutato dal datore: in ogni caso, se il datore di lavoro accetta di esperire il tentativo di conciliazione, questo potrebbe concludersi o con un accordo (con conseguente cessazione della lite) o con il fallimento di tale tentativo (perché le posizioni delle parti sono inconciliabili), e quindi con le conseguenze che saranno illustrate tra breve.

Invece, se il lavoratore sceglie la via dell’arbitrato, il datore può rifiutarlo o accettarlo: se lo rifiuta, si passa al terzo termine di impugnazione, se lo accetta, la questione viene devoluta agli arbitri che decideranno a maggioranza, anche in questo caso facendo cessare la lite.

Terzo termine di impugnazione di un licenziamento per GMO

L’articolo 6, co. 2, secondo periodo, della legge 15 luglio 1966, n. 604, dispone che, qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo. A questo punto possono verificarsi due situazioni:

  • il lavoratore non ha rispettato il cd. terzo termine, ossia entro 60 giorni non ha più compiuto alcun atto: egli è decaduto dalla possibilità di impugnare il proprio licenziamento;
  • il lavoratore ha rispettato il cd. terzo termine, ossia entro 60 giorni ha depositato il ricorso al giudice: l’esame della controversia passa al tribunale, che deciderà a favore del dipendente ricorrente o del lavoratore che resiste in giudizio.

Revoca di un licenziamento per GMO comunicato solo in forma verbale

Ad avviso della giurisprudenza, se è stato violato il requisito della forma scritta, ossia se il licenziamento è stato intimato solo a voce, non si applica il termine decadenziale di 60 giorni per impugnare il licenziamento.

Impugnazione di un licenziamento per GMO: riepilogo delle tutele a favore del lavoratore

Giunti alla fine di questa nostra esposizione, proprio con riguardo all’impugnazione del licenziamento, vale la pena di esporre in maniera coordinata tutte le possibili ipotesi di violazione delle varie norme che possono dar luogo al diritto del lavoratore al risarcimento del danno o, addirittura, alla reintegrazione.

1. LAVORATORI NON A TUTELE CRESCENTI: DATORE DI PICCOLE DIMENSIONI (articolo 8, legge 15 luglio 1966, n. 604)

Motivi di licenziamento non comunicati: quale risarcimento spetta al lavoratore?Procedura in ITL Licenziamento illegittimo: è possibile reintegrare il lavoratore?Licenziamento illegittimo: quale risarcimento spetta al lavoratore?
Da 2,5 a 6 mensilità Non prevista NO, salvo che datore offra volontariamente la riassunzione Da 2,5 a 6 mensilità

2. LAVORATORI NON A TUTELE CRESCENTI: DATORE DI GRANDI DIMENSIONI (articolo 18, legge 20 maggio 1970, n. 300)

Motivi di licenziamento non comunicati: quale risarcimento spetta al lavoratore? Procedura in ITLLicenziamento illegittimo: è possibile reintegrare il lavoratore? Licenziamento illegittimo: quale risarcimento spetta al lavoratore?
Da 6 a 12 mensilità Obbligatoria: in caso di omissione da 6 a 12 mensilità Solo se c’è materiale insussistenza del fatto, con anche risarcimento fino a 12 mensilità Da 12 a 24 mensilità

3. LAVORATORI A TUTELE CRESCENTI: DATORE DI PICCOLE DIMENSIONI (articoli 3 e 9, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23)

Motivi di licenziamento non comunicati: quale risarcimento spetta al lavoratore? Procedura in ITLLicenziamento illegittimo: è possibile reintegrare il lavoratore? Licenziamento illegittimo: quale risarcimento spetta al lavoratore?
Da 1 a 6 mensilità Non prevista NO, salvo che datore offra volontariamente la riassunzione Da 3 a 6 mensilità*

*La Corte Costituzionale, con sentenza 22 luglio 2022, n. 183, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23. In tale sentenza peraltro, invitando il legislatore a provvedere in merito, la Corte ha stabilito che il criterio di calcolo del risarcimento (da 3 a 6 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR), basato solo sul numero dei lavoratori occupati non risponde all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli. Ciò perché, in un quadro dominato dalla incessante evoluzione tecnologica e dalla trasformazione dei processi produttivi, al ridotto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari.

4. LAVORATORI A TUTELE CRESCENTI: DATORE DI GRANDI DIMENSIONI (articolo 3, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23)

Motivi di licenziamento non comunicati: quale risarcimento spetta al lavoratore? Procedura in ITLLicenziamento illegittimo: è possibile reintegrare il lavoratore? Licenziamento illegittimo: quale risarcimento spetta al lavoratore?
Da 2 a 12 mensilità Non prevista NO, salvo che datore offra volontariamente la riassunzione Da 6 a 36 mensilità

Ticket di licenziamento (contributo NASpI)

L’articolo 2, co. 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92, in generale, dispone che nei casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che, indipendentemente dal requisito contributivo, darebbero diritto all’AspI (oggi alla NASpI), dal 1° gennaio 2013, è dovuta, a carico del datore, una somma pari al 41% del massimale mensile di ASpI (oggi NASpI) per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni. Per quanto concerne le modalità di calcolo di tale contributo, da ultimo, si rinvia alle dettagliate indicazioni operative fornite dall’Inps con la circolare 17 settembre 2021, n. 137. Per l’anno 2023, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 4, co. 2, del D.Lgs. 4 marzo 2015 n. 22, la retribuzione da prendere a riferimento per il calcolo delle indennità di disoccupazione NASpI è pari a 1.352,19 euro; l’importo massimo mensile di detta indennità, al quale occorre fare riferimento per il calcolo del cd. contributo (o ticket) di licenziamento, per cui non opera la riduzione di cui all’articolo 26 della legge n. 41/1986, non può in ogni caso superare 1.470,99 euro (Inps, circolare 3 febbraio 2023, n. 14).

Quindi, in pratica, per le cessazioni dei rapporti di lavoro verificatesi a partire dal 1° gennaio e fino al 31 dicembre 2023:

  • il valore “base” di partenza è il massimale, ossia 1.470,99 euro;
  • il 41%, ossia la somma dovuta se il rapporto è durato proprio 12 mesi, è pari a 603,10 euro;
  • per un singolo mese di rapporto l’importo da versare è pari a 50,26 euro;
  • l’importo massimo da versare (per rapporti durati 36 mesi o più) si ottiene moltiplicando 603,10 euro per 3, e quindi con un risultato pari a 1.809,30 euro.

Invece, per le cessazioni dei rapporti di lavoro verificatesi a partire dal 1° gennaio e fino al 31 dicembre 2024:

  • il valore “base” di partenza è il massimale, ossia 1.550,42 euro (cfr. Inps, messaggio 7 febbraio 2024, n. 531);
  • il 41%, ossia la somma dovuta se il rapporto è durato proprio 12 mesi, è pari a 635,67 euro;
  • per un singolo mese di rapporto l’importo da versare è pari a 52,97 euro;
  • l’importo massimo da versare (per rapporti durati 36 mesi o più) si ottiene moltiplicando 635,67 euro per 3, e quindi con un risultato pari a 1.907,01 euro.

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