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Cassazione – Sanabilità dell’atto depositato fuori dall’autorizzazione ex art. 35 D.M. 44/2011

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente pronuncia 9772 del 12 maggio 2016, è da ultimo intervenuta su una delle questioni più dibattute in ambito di PCT, ossia, il deposito effettuato al di fuori dell’autorizzazione ex art. 35 D.M. 44/2011.
La norma appena richiamata veniva originariamente utilizzata per richiedere l’autorizzazione, alla Direzione Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati, all’avvio della sperimentazione in ambito di Processo Civile Telematico, e poi – una volta entrato in vigore l’obbligo di deposito telematico degli atti successivi alla costituzione in giudizio della parte – aveva assunto la funzione di “estensore” dei servizi digitali dei nostri Tribunali.
In pratica, prima dell’entrata in vigore dell’art. 16bis comma 1bis D.L. 179/2912– introdotto dal D.L. 83/2012 –, non era specificatamente consentito il deposito telematico degli atti che non rientravano all’interno dell’obbligo di cui al primo comma dell’art. 16bis stesso, e quindi molti Tribunali – al fine di ampliare il novero degli atti depositabili e proseguire nella sperimentazione – richiedevano specificatamente alla sopra citata DGSIA l’autorizzazione all’avvio di tali servizi.
La questione, benché ad oggi superata – come detto – grazie all’entrata in vigore del comma 1bis dell’art. 16bis D.L. 179/2012, non è comunque priva di interesse poiché, da un lato sancisce un principio di diritto che ben potrà trovare applicazione anche in casi che esulano dalla fattispecie specifica e, dall’altro, poiché le pronunce di inammissibilità di atti depositati in mancanza di autorizzazione ex art. 35 D.M. 44/2011 sono state numerose, e le relative impugnative sono oggi pendenti in molte delle nostre Corti d’Appello.
Chiarito, quindi, l’ambito della nostra analisi, vediamo di analizzare il testo dell’art. 35 D.M. 44/2011 più volte richiamato: “L’attivazione della trasmissione dei documenti informatici è preceduta da un decreto dirigenziale che accerta l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici nel singolo ufficio.”
L’articolo de quo, con evidente chiarezza, era stato quindi pensato per prevenire eventuali disservizi causati dall’avvio delle procedure di deposito telematico in Tribunali che non fossero ancora tecnicamente in grado di ricevere tali depositi.
La maggiore Dottrina (si vedano per tutti gli scritti dell’Avv. Maurizio Reale: http://maurizioreale.it/archives/210)) aveva però sostenuto sul punto:
a) l’abrogazione de facto dell’art. 35 D.M. 44/2011 in virtù dell’entrata in vigore (con l’introduzione dell’art. 16bis D.L. 179/2012) dell’obbligo di deposito telematico degli atti successivi alla costituzione in giudizio della parte, poiché – se lo scopo dell’art. 35 era quello di verificare la capacità tecnica di ricezione di un atto per via digitale – certamente, a seguito dell’entrata in vigore dell’obbligo di deposito telematico de quo, ogni Tribunale avrebbe dunque soddisfatto tale requisito tecnico;
b) l’impossibilità di pronunciare, ex art. 156 I comma c.p.c., la nullità per inosservanza delle forme dell’atto poiché, tale nullità, non era comminata dalla legge. Sul punto poi si precisava altresì che, anche qualora una nullità o una irregolarità fosse stata ravvisata, l’atto avrebbe comunque raggiunto lo scopo, con la conseguente sanatoria prevista dall’ultimo comma dell’art. 156 c.p.c.: “La nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.”.
Tali tesi dottrinarie, in particolare la seconda, hanno avuto una buona eco fra gli studiosi della materia ed hanno trovato terreno fertile anche in ambito giurisprudenziale.
Alcune pronunce di merito – si veda in particolare Tribunale di Milano 7 ottobre 2014 – hanno infatti recepito tali principi ma, in effetti, non in modo unitario.
Il Tribunale di Foggia con la pronuncia del 10 aprile 2014, ad esempio, aveva sostenuto che l’atto depositato telematicamente in assenza della specifica autorizzazione ex art. 35 D.M. 44/2011 fosse di fatto in ammissibile e lo stesso principio era stato espresso dal Tribunale di Bergamo nel respingere l’opposizione a decreto ingiuntivo depositata telematicamente che ha poi dato origine alla pronuncia della Suprema Corte che oggi ci occupa.
Venendo quindi all’oggetto del presente articolo, la Corte di Cassazione, con la pronuncia 9772 del 12 maggio 2016, si è in effetti fatta carico di dirimere la questione in modo – si auspica – definitivo pur, in effetti, non accogliendo il ricorso.
Il ricorso proposto ex art. 111 Costituzione, difatti, è stato ritenuto inammissibile poiché non direttamente impugnabile con tale procedimento ma, stante il particolare interesse ed importanza della questione ed in esercizio della funzione nomofilattica assegnata alla Corte di Cassazione, la Seconda Sezione ha comunque deciso di occuparsene, elaborando il seguente principio di diritto: “In tema di processo civile telematico, nei procedimenti contenziosi iniziati dinanzi ai tribunali dal 30 giugno 2014, nella disciplina del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-bis, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 19, n. 2), anteriormente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2015 (che, con l’art. 19, comma 1, lett. a, n. 1), vi ha aggiunto il comma 1-bis), il deposito per via telematica, anziché con modalità cartacee, dell’atto introduttivo del giudizio, ivi compreso l’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, non dà luogo ad una nullità della costituzione dell’attore, ma ad una mera irregolarità, sicché ogniqualvolta l’atto sia stato inserito nei registri informatizzati dell’ufficio giudiziario previa generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia, deve ritenersi integrato il raggiungimento dello scopo della presa di contatto tra la parte e l’ufficio giudiziario e della messa a disposizione delle altre parti”.
La Suprema Corte, quindi, richiama la tesi del raggiungimento dello scopo ex art. 156 ultimo comma c.p.c. e sposa – di fatto – quell’orientamento dottrinario consolidato che è stato poi ripreso anche dalla giurisprudenza del Tribunale di Milano, aggiungendo che “secondo il principio cardine di strumentalità delle forme desumibile dal combinato disposto degli artt. 121 e 156 cod. proc. civ. (cfr. Sez. Un., 3 novembre 2011, n. 22726; Sez. Un., 18 aprile 2016, n. 7665), le forme degli atti del processo non sono prescritte dalla legge per la realizzazione di un valore in sé o per il perseguimento di un fine proprio ed autonomo, ma sono previste come lo strumento più idoneo per la realizzazione di un certo risultato, il quale si pone come l’obiettivo che la norma disciplinante la forma dell’atto intende conseguire.”. La forma dell’atto, sostanzialmente, non viene dettata ex se o comunque al fine di produrre eccezioni, ma unicamente per individuare la via più idonea al raggiungimento dello scopo proprio dell’atto stesso.
Chiaro è che, purtroppo, tale principio non potrà essere applicato qualora, a seguito dell’invio telematico di atto non rientrante nelle autorizzazioni concesse ex art. 35 D.M. 44/2011 al singolo Tribunale, l’atto de quo sia stato rifiutato dalla cancelleria e quindi – in effetti – posto nel nulla.
L’atto in quel caso, benché virtualmente idoneo a spiegare i propri effetti processuali nei confronti di tutte le parti in causa, avrebbe subito una battuta di arresto durante il proprio “viaggio virtuale” verso il fascicolo del Tribunale, rendendo quindi impossibile il raggiungimento dello scopo.
Sono purtroppo tutt’altro che infrequenti i casi, avvenuti soprattutto negli anni 2014 e 2015, di atti rifiutati dalle cancellerie nonostante il chiaro divieto contenuto – in tal senso – nella circolare ministeriale 28 ottobre 2014.
A cura di Luca Sileni – Avv.to iscritto all’ordine di Grosseto referente informatico dell’ODA di Grosseto e Segretario del Centro Studi Processo Telematico.

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