La cultura del controllo e la continuità aziendale
Qual è l’obiettivo di un’impresa? Prima degli anni ’80 la maggior parte delle aziende avrebbe risposto che il fine esclusivo fosse quello di massimizzare il profitto. Negli ultimi anni però questa domanda ha dato stimolo a numerose riflessioni e generato profondi cambiamenti. Ci si è resi conto, infatti, che in uno scenario in cui l’evoluzione digitale e l’intelligenza artificiale fungono da principali protagonisti di un processo di gestione e organizzazione dell’impresa basato sull’innovazione e sulla pianificazione in un’ottica di lungo periodo, non ci si può permettere di trascurare alcune dinamiche importanti. La sola e/o eccessiva attenzione al raggiungimento dei risultati di breve periodo potrebbe infatti rivelarsi pericolosa.
Va innanzitutto premesso che, generalmente, il ciclo di vita di un’impresa può essere raffigurato come una curva caratterizzata da una naturale progressione di quattro fasi: nascita, maturità, declino, e crisi. Dato il contesto dinamico, durante le fasi della maturità e del declino, le aziende vincenti sono quelle in grado di rinnovarsi, e quindi di rinascere, modificando i propri processi e le proprie strategie alle esigenze del mercato ed estendendo, dunque, il proprio ciclo di vita.
Pertanto, nell’arco di vita di un’impresa si può andare incontro sia a momenti di successo che a momenti di difficoltà. Tuttavia, se in passato la difficoltà era considerata come un evento fondamentalmente straordinario, e il passaggio da una fase florida a una di crisi era generalmente abbinato al manifestarsi di indizi “premonitori” e a una fase di declino che poteva durare anche anni, oggi, la digitalizzazione di molti business ha nettamente accorciato i tempi di transizione tra una fase e l’altra. Tutto ciò sta portando sempre più a considerare la crisi non più come un evento singolare, bensì come un evento ricorrente che caratterizza il normale ciclo di vita di un’azienda.
Le imprese si trovano pertanto di fronte alla fondamentale necessità di preservare la continuità aziendale sia attraverso lo sviluppo di adeguate capacità di previsione quali-quantitativa, andando dunque oltre la mera analisi dei dati quantitativi storici, sia mediante l’utilizzo degli strumenti e delle attività messi a disposizione dal controllo di gestione.
Spesso, infatti, la crisi di un’impresa è diretta conseguenza di una serie di errori protratti nel tempo.
In un quadro così delineato, si è inserito il nuovo codice della crisi d’impresa che ha portato alla luce un nuovo concetto di fare impresa e dunque un nuovo sistema in grado di percepire e prevenire la crisi d’impresa.
In particolare, l’art. 2086, secondo comma, del Codice Civile, modificato dall’art. 375 del D.lgs. del 12/01/2019, n.14 (Codice della Crisi di impresa), obbliga l’imprenditore (diverso dall’imprenditore individuale) ad “istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. In tal senso, la nuova norma ha posto le basi per un vero e proprio cambio di rotta verso una filosofia del risanamento anziché dell’eliminazione delle imprese dal mercato.
Rimandando ad altra sede per i richiami sulla normativa prevista dal nuovo Codice, giova comunque fare un breve excursus su cosa si intende per assetti organizzativi, amministrativi e contabili.
Per assetto organizzativo si intende:
l’intero sistema di organigramma con le relative funzioni e, più nel dettaglio, il complesso delle direttive e delle procedure di controllo da rispettare al fine di garantire che il potere decisionale sia assegnato ed effettivamente esercitato a un appropriato livello di competenza e responsabilità
un sistema basato su flussi informativi attendibili ed efficaci tra i vari organi e funzioni aziendali.
Un assetto organizzativo è ritenuto adeguato quando può poggiare su una struttura compatibile alle dimensioni e alla complessità della società, alla natura e alle modalità di perseguimento dell’oggetto sociale e quando permetta di rilevare in maniera tempestiva gli indizi di crisi e di perdita della continuità aziendale.
Per sistema amministrativo e contabile si intende, invece, l’insieme delle direttive, delle procedure e delle prassi operative volte a garantire la completezza, la correttezza e la tempestività di un’informativa societaria attendibile, in accordo con i principi contabili adottati dall’impresa.
Un assetto amministrativo-contabile risulta adeguato se permette:
la completa, tempestiva e attendibile rilevazione contabile e rappresentazione dei fatti di gestione
la produzione di informazioni valide e utili per le scelte di gestione e per la salvaguardia del patrimonio aziendale
la produzione di dati attendibili per la formazione del bilancio d’esercizio.
La previsione e la programmazione rappresentano, pertanto, attività propedeutiche alla valutazione dell’adeguatezza degli assetti societari in un’impostazione prospettica della gestione nel tempo.
In tal senso, va affermandosi sempre più la logica del programmare per preservare, passando dalla necessità di sviluppare un sistema che integri “Programmazione e Continuità aziendale” alla consapevolezza che “Programmazione è continuità aziendale”.
In tale ottica, qualora si manifestasse durante l’arco di vita aziendale, la crisi d’impresa potrebbe non essere più solamente una fase di inquietudine, ma potrebbe essere vissuta con una prospettiva positiva poiché, se ben messo in atto, il controllo della gestione aziendale , può rappresentare un nuovo modo di affrontare l’imprenditorialità e preservare la continuità nel tempo. Parlare di un modello di business – ovvero la logica che sottende la definizione degli obiettivi e delle strategie di un’impresa in base alla sua natura e dimensione – orientato a perdurare nel tempo equivale dunque ad adottare un differente modello gestionale vocato ad una nuova cultura del controllo della gestione aziendale che contempla tre connotazioni differenti ma allo stesso tempo interdipendenti tra loro:
la cultura della decisione , orientata alla definizione degli obiettivi da raggiungere e alle strategie da implementare
la cultura dell’azione , ovvero la messa in atto delle strategie definite e la conseguente realizzazione degli obiettivi prefissati
la cultura della misurazione , volta ad analizzare in chiave quali-quantitativa i dati ottenuti e dunque, i risultati raggiunti.
Vuoi ricevere gli aggiornamenti sui contenuti della rubrica “Crisi di impresa, continuità e strumenti di prevenzione “?
Iscriviti
Questo nuovo modello gestionale, pertanto, abbraccia l’intero processo di pianificazione e programmazione strategica, muovendosi su più dimensioni: la dimensione spaziale e la dimensione temporale.
Con la dimensione spaziale vengono individuati tre tipi di controllo di gestione.
Controllo operativo Nella sua dimensione di processo, il controllo operativo si realizza mediante l’elaborazione dei processi aziendali con i quali vengono studiate e definite in maniera puntuale le singole attività e le correlate azioni da porre in essere per poterle svolgere.
Controllo direzionale Nella sua dimensione organizzativa, il controllo direzionale indirizza la responsabilità della gestione aziendale; è la tipologia di controllo indispensabile per l’acquisizione del complesso delle informazioni relative al livello delle prestazioni dei manager a capo di una divisione o di una funzione o di un’unità operativa. Affinché possa essere tradotto in operatività, tale tipo di controllo presume:
l’individuazione di uno stile direzionale , ovvero di una metodologia attraverso la quale definire obiettivi da porre in essere e strategie da perseguire. Lo stile di direzione può assumere diverse connotazioni e sfumature. Alcune aziende prediligono uno stile autoritario con un forte accentramento della gestione e dei risultati, altre invece uno stile partecipativo e democratico basato sul dialogo, partecipazione e sulla delega. Altre ancora uno stile permissivo che presuppone una maggiore libertà per il personale dipendente di assumere decisioni. Sicuramente non esiste uno stile giusto o sbagliato, ma affinchè esso sia efficace e di riflesso abbia un’incidenza positiva, è necessario che sia in profonda simbiosi con la cultura aziendale e compatibile con tutti gli attori della struttura organizzativa
l’individuazione e organizzazione dei diversi tipi di centri di responsabilità , definiti come le singole unità organizzative che, sotto la guida di un responsabile, hanno il compito di raggiungere in autonomia gli obiettivi assegnati, stabilendone i tempi e le modalità. I centri di responsabilità sono suddivisi in:
centri di ricavo, responsabili del fatturato
centri di costo, responsabili dei risultati ottenuti attraverso le risorse che si è scelto di impiegare
centri di profitto, responsabili del controllo dei costi e dei ricavi relativi alla gestione corrente
centri di investimento: centri a cui viene affidata la responsabilità non solo del controllo dei costi e ricavi correnti, ma anche della programmazione degli investimenti atti a garantire risultati in un’ottica di medio-lungo termine
Un sistema informativo efficace ed efficiente, ovvero un sistema in grado di fornire in maniera attendibile, tempestiva, chiara e completa tutte le informazioni necessarie ai fini dell’attività di controllo di gestione.
Controllo strategico È un ulteriore strumento in possesso delle imprese volto a validare o meno una determinata strategia e/o a monitorarne le variabili critiche del successo durevole di un’azienda in un’ottica di medio e lungo periodo. L’obiettivo di tale tipologia di controllo è quello di focalizzare e allo stesso tempo mettere in luce i propri punti di forza, lavorando contemporaneamente sul rafforzare le proprie aree di debolezza.
Passando alla trattazione della dimensione temporale, il controllo di gestione può essere suddiviso in:
Controllo antecedente: tale tipo di controllo viene realizzato mediante la predisposizione di un budget aziendale, ovvero un documento con cui è possibile analizzare i flussi in entrata e in uscita previsti da un’azienda in un determinato arco temporale. L’obiettivo è quello di pianificare e quindi stabilire preventivamente i processi produttivi e le attività da porre in essere per raggiungere gli obiettivi finanziari e operativi prestabiliti sulla base di target ben definiti. Si tratta dunque di un un’operazione fondamentale se si vuole assumere il controllo di tutti i costi, sia fissi che variabili, oltre che delle entrate e profitti futuri.
Controllo concomitante: ha l’obiettivo di monitorare costantemente l’andamento della gestione aziendale, cercando di garantire il rispetto degli obiettivi prefissati a monte. Tale tipo di controllo viene messo in atto attraverso l’implementazione di un sistema di monitoraggio che consente di rilevare in itinere eventuali scostamenti rispetto alla programmazione inziale, potendo così intervenire con azioni correttive in maniera tempestiva.
Controllo susseguente: è il tipo di controllo gestionale che avviene a posteriori. Esso si effettua mettendo a confronto i dati attesi e preventivati con il budget redatto in precedenza con i dati a consuntivo che quindi si sono già concretizzati. Lo scopo è quella di verificare gli eventuali scostamenti e di accertarne le cause.
Vuoi ricevere gli aggiornamenti sui contenuti della rubrica “Crisi di impresa, continuità e strumenti di prevenzione “?
Iscriviti
L’analisi di breve periodo e il margine di contribuzione
L’articolo 3 del Codice della Crisi e d’Impresa e dell’Insolvenza stabilisce l’obbligo per l’imprenditore di dotarsi di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile capace di consentire il rilevamento tempestivo dei sintomi della crisi e l’assunzione di idonee iniziative per farne fronte.
Ciò significa per l’impresa implementare strumenti e sistemi operativi anche di natura aziendalistica che permettano di monitorare costantemente la sua situazione economico-finanziaria, al fine di individuare prontamente eventuali squilibri.
Nell’ambito dell’assetto contabile, inteso come insieme delle rilevazioni, regole e procedure volte a rappresentare i fatti aziendali in modo veritiero e corretto, si inserisce il controllo di gestione , quale sistema di programmazione e monitoraggio delle performance aziendali.
Infatti, il controllo di gestione fornisce agli amministratori informazioni essenziali per monitorare le performance, identificando tempestivamente sintomi di crisi, consentendo di adottare decisioni strategiche mirate, contribuendo a garantire la sostenibilità e la competitività dell’impresa nel tempo.
Una delle funzioni principali del controllo di gestione è il monitoraggio dei costi che, a seconda dell’obiettivo dell’analisi e del tipo di decisione da assumere, può chiamare in causa differenti configurazioni di costo.
Ad esempio, nel caso in cui si desideri analizzare la redditività del mix produttivo, piuttosto che di una business unit o area strategica di affari, si chiameranno in causa i soli costi variabili (direct costing ). D’altra parte, per l’analisi dell’efficienza industriale e generale, così come per la fissazione dei prezzi nel medio lungo periodo, si opterà per il costo pieno (full costing).
Volendo focalizzarsi sulle decisioni di breve periodo, una delle grandezze economiche più significative, in grado di supportare scelte correnti di gestione (o scelte di gestione operativa), è il margine di contribuzione di primo livello , calcolato come la differenza tra i ricavi generati dalla vendita dei prodotti o servizi e i costi variabili legati alla produzione e alla vendita, ovvero tutti quei componenti negativi di reddito che variano proporzionalmente al variare del volume di produzione o di vendita (ad esempio le materie prime o anche le provvigioni corrisposte agli agenti).
Il margine di contribuzione di primo livello rappresenta, quindi, un indicatore chiave per misurare la redditività, in quanto permette al management di identificare rapidamente i prodotti e i servizi più redditizi e al contempo individuare aree di intervento per ottimizzare i risultati economici all’interno di un contesto in cui la capacità produttiva è data e non modificabile.
La logica che sottende il margine di contribuzione si basa sull’analisi delle variazioni nei volumi produttivi, all’interno di quello che viene definito “relevant range”, ovvero quell’intervallo in cui i costi fissi rimangono costanti.
In questo contesto, il margine di contribuzione può essere considerato un importante indicatore del risultato economico lordo, evidenziando la capacità dell’azienda di coprire i costi fissi e quindi di generare un risultato positivo di esercizio.
Sebbene il margine di contribuzione sia dato dalla differenza tra ricavi e costi variabili, un altro concetto fondamentale per comprendere la redditività di un’azienda, sempre all’interno dell’intervallo di capacità produttiva data, è il margine di contribuzione semilordo o margine di contribuzione di secondo livello , il quale non si concentra solo sui costi variabili, bensì tiene conto anche dei costi fissi associati a determinati prodotti o servizi o linee di business (costi fissi specifici).
Si avrebbe quindi:
Dunque, rispetto al margine di primo livello, il secondo livello ci fornisce una visione più dettagliata ed approfondita della performance economica di ciascun prodotto o servizio. Infatti, un margine di contribuzione di secondo livello positivo evidenzia che si sta generando un contributo sufficiente a coprire non solo i costi variabili ma anche quelli fissi specifici.
Vuoi ricevere gli aggiornamenti sui contenuti della rubrica “Crisi di impresa, continuità e strumenti di prevenzione “?
Iscriviti
L’esigenza di procedere a quest’ulteriore distinzione scaturisce, appunto, dal fatto che, in taluni casi, soffermarsi esclusivamente alla valutazione dei costi variabili, trascurando l’individuazione anche dei costi fissi specifici, potrebbe portare, nel breve periodo, a considerazioni di convenienza economica errate e/o all’eliminazione di prodotti strategicamente più rilevanti di altri.
Un esempio numerico può chiarire il perché dell’importanza di distinguere anche i costi fissi specifici tenendoli separati da quelli comuni.
Prodotto A Prodotto B Totale Ricavi netti 7.000 3.000 10.000 – Costi var. 4.500 1.000 5.500 M.d.C.1° 2.500 2.000 4.500 – Costi fissi spec. 3.000 500 3.500 M.d.C.2° -500 1.500 1.000 – Costi fissi indiretti 500 Utile netto 500
Nell’esempio presentato, infatti, se ci fossimo fermati a considerare solo il margine di contribuzione di primo livello o margine di contribuzione lordo, il prodotto A sarebbe risultato più redditizio; tuttavia, una volta calcolato il margine di contribuzione di secondo livello, il prodotto B risulta essere il più remunerativo.
A tal proposito, è importante fare un’ulteriore precisazione sulla determinazione del margine di contribuzione, parlando di margine di contribuzione unitario e di margine di contribuzione in termini percentuali.
In particolare, si parla di margine unitario quando lo stesso viene calcolato per ciascuna unità di prodotto o singolo servizio, come nell’esempio che segue:
Prodotto A Prodotto B Ricavi netti unitari 10 8 – Costi var. unit. 8 5 M.d.C.1° unit. 2 3 Quantità vendute 1.700 800 M.d.C. totale 1.700 X 2 = 3.400 800 X 3 = 2.400
Analizzando il caso presentato è chiaro che, per quanto il prodotto B presenti un margine di contribuzione unitario maggiore, in realtà il prodotto A è quello che assicura una più alta redditività globale d’impresa, considerate le quantità vendute.
Il margine di contribuzione complessivo risulta infatti maggiore.
In ottica strategica al fine di tutelare la continuità economica aziendale potrebbe infatti rilevarsi utile conoscere il contributo che ciascuna quantità venduta garantisce in ottica di copertura dei costi fissi.
Nello specifico, al fine di migliorare i risultati economici complessivi dell’azienda, in fase di budgettizazione, il management potrebbe valutare di impegnare la capacità produttiva a disposizione per incrementare le vendite del prodotto B che appunto mostra un margine unitario maggiore.
Un altro aspetto importante da considerare riguarda la determinazione del margine di contribuzione percentualizzato , dato dal rapporto tra margine di contribuzione totale e fatturato totale.
Prodotto A Prodotto B Ricavi netti unitari 10 8 – Costi var. unit. 8 5 M.d.C.1° unit. 2 3 Quantità vendute 1.700 800 Fatturato totale 17.000 6.400 Costi variabili totali 13.600 4.000 M.d.C.1° livello 3.400 2.400 M.d.C./Fatturato 20% 37,5%
Soffermandosi sull’esempio, sebbene il prodotto A attualmente rappresenti la migliore fonte di redditività per l’impresa, considerando che garantisce un margine di contribuzione complessivamente maggiore, l’analisi del margine di contribuzione percentuale suggerisce di incentivare le vendite del prodotto B , in quanto presenta un miglior rapporto tra il margine di contribuzione e il fatturato.
Ciò detto, è evidente come gli ambiti applicativi del margine di contribuzione siano molteplici ed oltre a favorire, in generale, l’analisi sulla redditività dei prodotti in relazione al loro ciclo di vita e al loro posizionamento sul mercato, supporta il processo decisionale del management in ambiti specifici quali, ad esempio:
accettazione di ordini speciali;
definizione del mix produttivo in presenza di un fattore scarso;
eliminazione di un prodotto in perdita;
make or buy.
Queste applicazioni pratiche, di cui si scriverà nei prossimi articoli, possono supportare l’ottimizzazione delle decisioni strategiche e migliorare la redditività complessiva dell’azienda.