Licenziamento discriminatorio, nullo e orale
La risoluzione del rapporto di lavoro, per iniziativa del datore, che sia legata a motivi discriminatori o comminata in violazione di norme che ne prevedono la nullità oppure che non rispetti la forma scritta, è sempre soggetta alla reintegrazione del dipendente (a prescindere dalla sua data di assunzione e al numero di lavoratori occupati) nonché a un cospicuo risarcimento del danno (oltre che al versamento dei contributi). Si tratta delle ipotesi, da un lato più “biasimevoli”, e dall’altro più costose di licenziamento; di seguito ciò che occorre sapere per evitare errori al riguardo.
Licenziamento orale
L’articolo 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, espressamente dispone quanto segue:
- co. 1: il datore, imprenditore o meno, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore;
- co. 2: la comunicazione del licenziamento deve “specificare” i motivi che lo hanno determinato;
- co. 3: il licenziamento intimato senza l’osservanza delle disposizioni di cui ai co. 1 e 2 è inefficace;
- co. 4: le disposizioni di cui al co. 1 e di cui all’articolo 9 (diritto al TFR in ogni caso di risoluzione del rapporto) si applicano anche ai dirigenti.
La forma scritta, in attesa dell’evoluzione della giurisprudenza sul punto, è bene che sia quella “classica”, ossia una raccomandata con avviso di ricevimento, evitando strumenti alternativi quali whatsapp, e-mail ordinarie, e similari.
Peraltro, la violazione della forma scritta comporta conseguenza ben più pesanti – per il datore di lavoro – della mera violazione dell’obbligo di dettagliare anche i motivi del recesso (nel primo caso la sanzione consiste sempre nella reintegrazione del dipendente più il risarcimento del danno, nel secondo si ha unicamente diritto al risarcimento del danno mediante l’erogazione di un’apposita indennità).
Al netto di poche differenze in relazione alla quantificazione dell’indennità, il regime di tutela (si tratta della tutela cosidetta “reale piena”) è identico, a prescindere dal fatto che si tratti di un dipendente soggetto (o meno) alle cosidette tutele crescenti e che il datore sia considerabile come di maggiori o di minori dimensioni.
Licenziamento discriminatorio e nullo: art. 18 dello Statuto
L’art. 18, co. 1, primo periodo, fa riferimento alle tipologie di licenziamento elencate nella tabella che segue.
Art. 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108 | Licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’art. 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dell’art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300; ossia quello fondato unicamente su una delle seguenti ragioni: credo politico; fede religiosa; appartenenza a un sindacato e/o partecipazione ad attività sindacali (sciopero incluso); conseguente all’esercizio di un diritto o alla segnalazione, alla denuncia all’autorità giudiziaria o contabile o alla divulgazione pubblica effettuate ai sensi del decreto legislativo attuativo della direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2019 (cfr. art. 17 del D.Lgs. 10 marzo 2023, n. 24); razza; lingua; sesso; handicap; età; orientamento sessuale o, infine, convinzioni personali. |
Art. 35 del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 | Sono nulli i licenziamenti attuati a causa di matrimonio. Salvo quanto previsto dal co. 5, si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a 1 anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio (co. 3). Il datore può provare che il licenziamento della lavoratrice, avvenuto nel periodo di cui al co. 3, è stato effettuato non a causa di matrimonio, ma per una delle seguenti ipotesi: a) colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa; b) cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta; c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto per la scadenza del termine (co. 5). |
Art. 54, co. 1, 6, 7 e 9, del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 | Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di 1 anno di età del bambino (co. 1). Il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, e la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al proprio datore idonea certificazione da cui risulti l’esistenza all’epoca del recesso, delle condizioni che lo vietavano (co. 2). Il divieto di licenziamento non si applica nel caso di: a) colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa; b) cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta; c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine; d) esito negativo della prova; resta fermo il divieto di discriminazione di cui all’art. 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125 (co. 3). Il licenziamento intimato alla lavoratrice in violazione delle disposizioni di cui ai co. 1, 2 e 3, è nullo (co. 5). È altresì nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore (co. 6). In caso di fruizione del congedo di paternità, di cui agli artt. 27-bis e 28, il divieto di licenziamento si applica anche al padre lavoratore per la durata del congedo stesso e si estende fino al compimento di 1 anno di età del bambino. Si applicano le disposizioni del presente articolo, co. 3, 4 e 5. (co. 7). Tali disposizioni si applicano anche in caso di adozione e affidamento: in particolare, il divieto di licenziamento si applica fino a 1 anno dall’ingresso del minore nel nucleo. In caso di adozione internazionale, il divieto opera dalla comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando, ex art. 31, co. 3, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184, ovvero della comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento. |
Art. 1345 del codice civile | Il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe. Si tratta, per esempio, del licenziamento cosiddetto ritorsivo (Cass. ord. 14 ottobre 2021 n. 28175). |
Licenziamento discriminatorio e nullo: tutele crescenti
Va premesso che il regime delle cosiddette tutele crescenti si applica nelle ipotesi indicate di seguito:
a) operai, impiegati o quadri, assunti con contratto subordinato a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015;
b) sempre dal 7 marzo 2015, in tutti i casi di conversione a tempo indeterminato di un contratto:
- a tempo determinato, o
- di apprendistato;
c) nel caso in cui il datore, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute dal 7 marzo 2015 in poi, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, co. 8 e 9, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (ossia superi i 15 dipendenti nell’unità produttiva o nel comune in cui si verifica il licenziamento, ovvero superi i 60 dipendenti in tutto il territorio nazionale, a prescindere dal numero di lavoratori occupato in ogni singola unità produttiva).
Ebbene, per quanto qui di specifico interesse, l’articolo 2, co. 1, primo periodo, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, fa riferimento alle tipologie di licenziamento elencate nella tabella che segue.
Art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300 | È nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o meno ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Tali disposizioni si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età, di nazionalità o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali. |
Altri casi di nullità previsti dalla legge | Al riguardo va segnalato che la norma – nella sua formulazione originale – faceva riferimento agli altri casi di nullità “espressamente” previsti dalla legge. Tuttavia la Corte Costituzionale – con la sentenza 22 febbraio 2024, n. 22 – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, co. 1, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alla parola “espressamente”. |
Fattispecie particolari di licenziamento nullo
Nella tabella che segue sono individuate alcune particolari fattispecie di licenziamento nullo ovvero discriminatorio, che comportano in ogni caso la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato nonché il risarcimento del danno.
Smart working | I datori che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione in modalità agile devono riconoscere priorità alle richieste formulate dalle lavoratrici e dai lavoratori: – con figli fino a 12 anni di età; – con figli disabili gravi, a prescindere dalla loro età; – che siano essi stessi disabili gravi (ex art. 4, co. 1, legge 5 febbraio 1992, n. 104) o caregivers (art. 1, co. 255, legge 27 dicembre 2017, n. 205). Il dipendente che chiede lo smart working non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro: ogni misura adottata in violazione di quanto sopra è espressamente considerata ritorsiva o discriminatoria (e quindi nulla). | Art. 18, co. 3-bis, legge 22 maggio 2017, n. 81 |
Molestie e molestie sessuali | Sono nulli, se adottati a seguito del rifiuto o della sottomissione a tali comportamenti, gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto dei o delle dipendenti vittime di molestie o molestie sessuali. Il/la dipendente che agisce in giudizio contro le discriminazioni per molestia o molestia sessuale non può essere licenziato/a oppure soggetto/a ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, determinati dalla denuncia stessa. Inoltre, sono nulli: il licenziamento ritorsivo o discriminatorio nonché ogni altra misura ritorsiva o discriminatoria verso il/la denunciante. Va infine precisato che tali tutele non operano ove, anche con sentenza di primo grado, sia accertata la responsabilità penale del denunciante per i reati di calunnia o diffamazione ovvero la denuncia sia infondata. | Art. 26 D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 |
Richiesta del part time | La lavoratrice o il lavoratore che chiedono la trasformazione del contratto da tempo pieno a tempo parziale non possono essere sanzionati, demansionati, licenziati, trasferiti o sottoposti ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o meno, sulle condizioni di lavoro. Ogni misura adottata in violazione di tale previsione è considerata ritorsiva o discriminatoria e, quindi, nulla. | Art. 8, co. 5-bis, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 |
Dirigenti RSA o RSU | In caso di licenziamento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali o delle rappresentanze sindacali unitarie, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui egli aderisce o conferisce mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, ove ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore, può disporre (con ordinanza) la reintegrazione del lavoratore. Tale ordinanza: a) può essere impugnata con reclamo immediato al giudice che l’ha pronunciata; b) può essere revocata con la sentenza che decide la causa. Se il giudice ordina la reintegrazione, il datore che non ottempera è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore. | Art. 18, co. 11-14, legge 20 maggio 1970, n. 300 |
Regime di tutela: premessa
Va premesso che nella “normalità dei casi”, ossia con riguardo a tutte le altre tipologie di licenziamento “illegittimo”, le conseguenze sanzionatorie a carico del datore (imprenditore o non imprenditore) sono diversificate a seconda che il datore possa essere definito come “piccolo” o come “grande”. In pratica, il datore viene normalmente considerato “grande” – in base a quanto previsto dall’articolo 18, co. 8 e 9, della legge 20 maggio 1970, n. 300 – ove ricorra una di queste situazioni:
- nella sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento, occupa alle sue dipendenze più di 15 lavoratori (più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo);
- nell’ambito dello stesso comune occupa più di 15 dipendenti (se impresa agricola: che nel medesimo ambito territoriale occupa più di 5 dipendenti), anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti;
- in ogni caso, in tutta Italia, occupa più di 60 dipendenti (a prescindere dalla loro distribuzione nelle diverse unità produttive).
Ebbene, se si tratta di licenziamento discriminatorio, orale o nullo, la distinzione di cui appena sopra non ha alcuna rilevanza: il regime di tutela prescinde dal numero di dipendenti in organico e si differenzia (peraltro, in misura assai limitata) unicamente in base alla normativa applicabile, ossia lo Statuto dei Lavoratori oppure il D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (cd. tutele crescenti).
È ovvio che il regime di tutela di cui si dirà a breve opera se il lavoratore impugna il licenziamento nei tempi previsti e, conseguentemente, se vince la causa.
Regime di tutela: vecchi assunti
In base a quanto previsto dall’articolo 18, co. 1-3, della legge 20 maggio 1970, n. 300, se il giudice dichiara il licenziamento nullo perché discriminatorio, o (appunto) nullo, oppure anche se accerta che esso è stato comminato solamente in forma orale, agisce come di seguito indicato:
- ordina al datore, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti in organico (inclusi i dirigenti);
- condanna il datore al risarcimento del danno subìto dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative;
- in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a 5 mensilità della retribuzione globale di fatto (il massimo dipende dal tempo trascorso a partire dalla data del licenziamento);
- condanna il datore, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro 30 giorni dall’invito del datore, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al co. 3 del medesimo articolo 18.
Infine, fermo restando il diritto al risarcimento del danno (minimo 5 mensilità della retribuzione globale di fatto), il lavoratore ha la facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.
Regime di tutela: nuovi assunti
In base a quanto previsto dall’articolo 2 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (in vigore dal 7 marzo 2015), se il giudice dichiara il licenziamento nullo perché discriminatorio o (appunto) nullo oppure anche se accerta che esso è stato comminato solamente in forma orale, agisce come di seguito indicato:
- ordina al datore, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto, indipendentemente dal motivo formalmente addotto;
- condanna altresì il datore al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui è stata accertata la nullità e l’inefficacia, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative;
- in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto;
- condanna il datore, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro 30 giorni dall’invito del datore, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità cosiddetta sostitutiva della reintegrazione. E infatti, fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto sopra, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità cosiddetta “sostitutiva” deve essere effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.
Nota Bene – Ai sensi dell’articolo 2, co. 4, del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, la disciplina appena sopra esposta si applica anche nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, co. 4, e 10, co. 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68.
Onere della prova
Viste le ampie tutele concesse al dipendente in caso di recesso discriminatorio, orale o nullo, l’onere della prova ricade sul lavoratore medesimo che impugna il licenziamento.
Tuttavia, nel caso in cui, in aggiunta al motivo discriminatorio, il datore dimostri l’esistenza anche di una condotta gravissima addebitabile al dipendente, che sia configurabile come giusta causa di licenziamento, il rapporto cessa per effetto del licenziamento disciplinare.
LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO, ORALE E NULLO: TUTELE A CONFRONTO | ||
Datore/Dipendente | Datore “piccolo” | Datore “grande” |
Dipendente “vecchio” (art. 18 legge n. 300/1970) | Reintegrazione + minimo 5 mensilità ultima retribuzione globale di fatto + contributi | Reintegrazione + minimo 5 mensilità ultima retribuzione globale di fatto + contributi |
Dipendente “nuovo” (art. 2 D.Lgs. n. 23/2015) | Reintegrazione + minimo 5 mensilità ultima retribuzione di riferimento per TFR + contributi | Reintegrazione + minimo 5 mensilità ultima retribuzione di riferimento per TFR + contributi |
Impugnazione del licenziamento: forma e primo termine
L’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, dispone che, anche nel caso che qui ci interessa, il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto a impugnare il licenziamento stesso.
Secondo termine di impugnazione
L’articolo 6, co. 2, primo periodo, della legge 15 luglio 1966, n. 604, dispone che l’impugnazione – anche ove regolarmente effettuata entro il termine di 60 giorni di calendario a partire da quello in cui il lavoratore ha ricevuto la comunicazione scritta dell’atto di licenziamento – è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, in alternativa tra loro, da uno dei seguenti atti:
- deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro;
- comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione;
- comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di arbitrato;
ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso.
E qui va fatta qualche precisazione. La norma prevede che, dopo aver impugnato entro 60 giorni, nei successivi 180 di calendario, il lavoratore ha 3 possibilità, ossia: chiedere direttamente l’intervento del giudice, chiedere al datore di lavoro di espletare un tentativo di conciliazione oppure che sia costituito un collegio arbitrale.
Se la strada scelta è quella del giudizio, la vertenza passa direttamente nelle “mani” del tribunale ordinario in funzione di giudice del lavoro che, in ogni caso, nella prima udienza, esperisce un tentativo di conciliazione. Se, invece, il lavoratore preferisse la via della conciliazione, l’avvio del tentativo potrebbe essere accettato o rifiutato dal datore: in ogni caso, se il datore di lavoro accetta di esperire il tentativo di conciliazione, questo potrebbe concludersi con un accordo (con conseguente cessazione della lite) o con il fallimento di tale tentativo (perché le posizioni delle parti sono inconciliabili), e quindi con le conseguenze che saranno illustrate tra breve.
Invece, se il lavoratore sceglie la via dell’arbitrato, il datore può rifiutarlo o accettarlo: se lo rifiuta, si passa al terzo termine di impugnazione, se lo accetta, la questione viene devoluta agli arbitri che decideranno a maggioranza, anche in questo caso facendo cessare la lite.
Terzo termine di impugnazione
L’articolo 6, co. 2, secondo periodo, della legge 15 luglio 1966, n. 604, dispone che, qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo. A questo punto possono verificarsi due situazioni:
- il lavoratore non ha rispettato il cosiddetto terzo termine, ossia entro 60 giorni non ha più compiuto alcun atto: egli è decaduto dalla possibilità di impugnare il proprio licenziamento;
- il lavoratore ha rispettato il cosiddetto terzo termine, ossia entro 60 giorni ha depositato il ricorso al giudice: l’esame della controversia passa al tribunale, che deciderà a favore del dipendente ricorrente o del lavoratore che resiste in giudizio.