Nullo il licenziamento per malattia se il periodo di comporto non è superato
Attenzione a computare correttamente il periodo di comporto che il contratto collettivo concede al lavoratore, prima che il datore possa risolvere il contratto con un licenziamento. Un “caldo invito” in tal senso viene da una recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha ulteriormente precisato quanto già prima stabilito dalle sezioni unite.
L’art. 2110 co. 2, cod. civ. dispone che – in caso di malattia del lavoratore – l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’art. 2118 (ossia dando il preavviso o erogando la corrispondente indennità sostitutiva), una volta che sia (integralmente) decorso il periodo – cosiddetto “di comporto” – stabilito di norma da parte del contratto collettivo.
Ebbene, le sezioni unite della Suprema Corte (con sentenza 22 maggio 2018, n. 12568) hanno stabilito che il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è radicalmente nullo (e non solo meramente inefficace) per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, co. 2, cod. civ.
In tal caso, se non si tratta di lavoratori a tutele crescenti, opera il combinato disposto dei co. 4 e 7 dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori; ne consegue che il lavoratore ha sempre diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria (pari, nel suo ammontare massimo, a 12 mensilità), commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione.
Ora, riprendendo tale principio, la Cassazione (con la recentissima sentenza 16 settembre 2022, n. 27334) ha stabilito che tale tutela (a prescindere da quanto previsto dall’art. 18, co. 8, che limita l’applicazione dei co. da 4 a 7 ai soli datori cd. “grandi”) si applica senza che rilevi il numero di dipendenti, e quindi anche ove il datore non superi la fatidica “quota 15”. In pratica, se al rapporto si applica l’art. 18 dello Statuto, il lavoratore licenziato prima di aver superato il comporto ha sempre diritto alla reintegra e al risarcimento del danno (fino a 12 mensilità), a prescindere dal fatto che si tratti di un’impresa “piccola” o “grande”.
Invece, quanto ai lavoratori a tutele crescenti, ossia gli assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 in poi, non esiste alcuna disposizione particolare, e quindi si applicherà il regime generale della nullità di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, con conseguente reintegrazione più risarcimento del danno con un minimo di 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.