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Malattia e licenziamento: le ultime sentenze in materia

Stante un diffuso malcostume da parte di alcuni dipendenti, i licenziamenti conseguenti a false malattie, come pure all’inadempimento dei doveri collegati a tale tipo di assenza sono assai frequenti. E’ quindi opportuno riepilogare, almeno in sintesi, le regole vigenti, illustrando il comportamento corretto da tenere e, parimenti, in quali casi la condotta del dipendente si presti a essere sanzionata, il tutto alla luce delle sentenze più recenti.
 
Informativa al datore – Molti contratti collettivi dispongono che, in caso di malattia, il lavoratore, ancor prima di recarsi dal proprio medico curante, debba informare (anche con una telefonata) il datore circa l’assenza: tale obbligo, che può essere previsto dal regolamento aziendale, intende soddisfare le esigenze organizzative dell’impresa, consentendo al datore di sopperire all’assenza. La violazione di tale onere può costituire oggetto di procedimento disciplinare.
 
Certificato medico – Dopo le modifiche degli ultimi anni, la certificazione della malattia avviene quasi esclusivamente in modalità telematica: il lavoratore ha però l’obbligo di verificare la corretta compilazione del certificato da parte del sanitario di sua fiducia, accertandosi che l’indirizzo presso il quale egli è reperibile sia stato correttamente indicato. Il dipendente deve anche comunicare al datore il numero di protocollo del certificato medico.
 
Visite mediche di controllo – Durante l’assenza per malattia (salvi casi particolari) il lavoratore del settore privato ha l’obbligo di rendersi reperibile all’indirizzo indicato sul certificato, tutti i giorni dalla 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, con le seguenti precisazioni:

a) se il citofono è rotto o se il suo nome non è indicato (perché, per esempio, compare solo quello della moglie), egli deve adottare le misure opportune (es. affiggere sul cancello un avviso per il medico, correggere il nome sul citofono) onde consentire al sanitario di trovarlo;

b) lo stare in casa ma non aver udito il campanello, adducendo, per esempio, di essersi trovati sotto la doccia, non è una giustificazione idonea, e il lavoratore viene considerato assente;

c) se è necessario uscire da casa (es. per una TAC), il dipendente deve preavvertire il datore (per evitare una richiesta di visita medica per quel giorno e le successive giustificazioni), essendo poi tenuto a esibire la documentazione medica relativa alla visita o esame esterni.

 
Assenza alla visita di controllo – L’assenza alla visita di controllo, rispetto alla quale il lavoratore non sia in grado di fornire una valida ragione giustificatrice, oltre a costituire un illecito disciplinare (sanzionabile anche con il licenziamento), comporta conseguenze per quanto concerne l’indennità economica di malattia. Infatti, va tenuto presente quanto segue:

a) assenza alla 1a o unica visita: perdita del diritto al trattamento economico per 10 giorni;

b) assenza nel corso della 2a visita fiscale: sospensione del 50% del trattamento economico erogato per l’ulteriore periodo successivo ai primi 10 giorni, e fino al termine della malattia;

c) assenza anche alla 3a o successiva visita fiscale: cessa l’erogazione dell’indennità dal giorno in cui viene accertata l’assenza.

 

A tale proposito si segna la recentissima sentenza n. 64/2017, con cui la Cassazione ha confermato il licenziamento di un dipendente che era risultato assente a 3 visite fiscali in 2 mesi, senza aver comunicato preventivamente l’assenza dal domicilio: va evidenziato che è stato ritenuto irrilevante il fatto che la successiva visita, effettuata dal medico dell’Inps, avesse confermato l’esistenza della malattia che era stata diagnosticata, con la relativa prognosi.

 
Svolgimento di altra attività – Altra delicata questione riguarda il caso del dipendente sorpreso (per esempio da un investigatore privato) mentre sta svolgendo un’altra attività in costanza di malattia; a prescindere dal fatto che si tratti di attività lavorativa, sportiva o di altro genere (e, in particolare, del compimento degli atti della vita quotidiana, come fare la spesa), il principio applicabile è sempre questo: lo svolgimento di un’altra attività durante la malattia non è precluso in assoluto ma certamente lo è, con conseguente applicazione delle sanzioni disciplinari, ogniqualvolta tale attività, per la sua natura, possa pregiudicare o anche solo ritardare la piena guarigione e il celere rientro in servizio.
 
A tale proposito merita di essere citata la sentenza n. 20210/2016 della Cassazione, con cui, nel caso del dipendente che era stato trovato regolarmente in casa in occasione di ben 6 visite fiscali, i giudici hanno dichiarato illegittimo il licenziamento basato sulla semplice circostanza che il lavoratore, in 2 occasioni, era uscito di casa utilizzando l’automobile o un motociclo.
 
Periodo di comporto – L’art. 2110 del codice civile dispone che, in caso di malattia, il datore può recedere dal contratto in base all’art. 2118 (ossia concedendo il preavviso), una volta decorso il periodo stabilito dal contratto collettivo. A tale proposito ecco poche regole:

a) il comporto può essere “secco” (1 solo episodio morboso di lunga durata) o “frazionato” (tante malattie la cui singola durata va sommata ai fini che qui interessano);

b) salvo diversa disposizione del contratto collettivo, si sommano anche i giorni festivi inclusi nel periodo (per esempio, in caso di certificato che copre da mercoledì 1° fino a mercoledì 8 febbraio 2017 incluso, si contano 8 giorni, compresi quindi sabato 4 e domenica 5);

c) spesso il contratto collettivo prevede la possibilità del lavoratore, in vista dell’esaurirsi del comporto, di far richiesta di un’aspettativa: se tale clausola esiste va rispettata.

 
La Cassazione, con sentenza 10 gennaio 2017, n. 284, ha stabilito che, in caso di prestazione di lavoro a tempo parziale (fissata al mattino dalle ore 9 alle 13), nel computo del periodo di comporto non possono essere incluse quelle giornate durante le quali al mattino il dipendente abbia regolarmente prestato attività lavorativa mentre al pomeriggio si sia invece assentato per sottoporsi a trattamenti sanitari (nel caso di specie, a emodialisi).
 
Conclusioni – Va infine ricordato che, in base all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, per i dipendenti assunti entro il 6 marzo 2015 (ossia quelli non soggetti alle cd. tutele crescenti) da parte dei datori di maggiori dimensioni, nel caso di licenziamento intimato prima del superamento del comporto, il giudice annulla il recesso e condanna il datore alla reintegrazione nel posto e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino all’effettiva reintegrazione: la misura di tale indennità non può essere superiore a 12 mensilità della retribuzione.
 

Va infine evidenziato che il Tribunale di Milano, con sentenza del 5 ottobre 2016, ha stabilito il diritto alla reintegrazione di un lavoratore, assunto con il contratto a tutele crescenti, che era stato licenziato prima del superamento del periodo di comporto. Nel caso di specie, il giudice ha affermato che, se il recesso viene intimato prima della scadenza di tale periodo, allora esso si fonda su di una causale soggettiva, con conseguente onere del datore di dimostrare che l’eccessiva morbilità configura il grave inadempimento degli obblighi del lavoratore: se tale prova non vien fornita spetta la reintegrazione nel posto di lavoro.

 
 
A cura di Alberto Bosco – Esperto di diritto del lavoro, Giuslavorista, Pubblicista de Il Sole24Ore. Consulente aziendale e formatore.

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