Lavoro e HR

Tempo di lettura:

Tempo di lettura:

Licenziamento: blocco fino al 31 marzo 2021

L’articolo 1, co. 309-311, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Legge di Bilancio 2021), sarà ricordato come l’ultima norma che, a seguito della pandemia da virus Covid-19, ha impedito al datore di lavoro di recedere dal contratto con un licenziamento collettivo o per giustificato motivo oggettivo? In ogni caso, in attesa dei prossimi passi del Governo, il punto sulla questione.

5 norme (+ una) in 10 mesi

La crisi economica, con le evidenti ricadute sull’occupazione, ha indotto il Governo, con successivi decreti legge, a vietare al datore di lavoro di licenziare – sia per giustificato motivo oggettivo che con i licenziamenti collettivi – il personale dipendente. Ciò è avvenuto con le disposizioni di seguito elencate in ordine cronologico:

  1. articolo 46 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (cd. decreto “Cura Italia”), che da tale data ha impedito, per 60 giorni, il licenziamento;
  2. la norma è stata modificata dalla legge di conversione 24 aprile 2020, n. 27, la quale ha disposto che il divieto di licenziamento collettivo non opera se il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, è riassunto (in forza di legge, di CCNL o di clausola del contratto d’appalto) perché subentra un nuovo appaltatore;
  3. è stata poi la volta dell’articolo 80 del D.L. 19 maggio 2020, n. 34 (cd. decreto “Rilancio”), come modificato dalla legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77, la quale ha prolungato il divieto di licenziamento, portandolo dagli iniziali 60 giorni a 5 mesi (quindi fino a lunedì 17 agosto). Tale ultima norma ha anche previsto che il datore che, a prescindere dal numero dei dipendenti, dal 23 febbraio al 17 marzo 2020 ha licenziato per giustificato motivo oggettivo ex articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, in deroga all’articolo 18, co. 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, può revocare in ogni tempo il recesso, purché contestualmente richieda il trattamento di cassa integrazione salariale, ex articoli da 19 a 22 del D.L. n. 18/2020, dalla data in cui ha efficacia il licenziamento: in questo caso, il rapporto è ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore.
  4. è stata quindi la volta dell’articolo 14 del D.L. 14 agosto 2020, n. 104, il quale, pur introducendo alcune specifiche deroghe al divieto di licenziamento, ha condizionato la possibilità di licenziare alla preventiva fruizione degli ulteriori periodi di integrazione salariale espressamente previsti o di un nuovo e specifico esonero contributivo;
  5. in seguito, l’articolo 12, co. da 9 a 11, del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137 (convertito in legge, con modifiche, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176), aveva prorogato tale blocco al 31 gennaio 2021, peraltro senza che fosse necessario aver fruito delle nuove settimane di cassa integrazione o dell’esonero contributivo (e, quindi, il blocco operava senza alcuna condizione, al netto delle deroghe espressamente previste, di cui si dirà di seguito).

Le Legge di Bilancio 2021

Ed eccoci ai giorni nostri, ossia alla legge 30 dicembre 2020, n. 178, il cui articolo 1, co. da 9 a 11, ci interessa da vicino. Tale norma – che ha anch’essa mantenuto le specifiche eccezioni già previste dalle precedenti disposizioni in materia – dispone quanto riportato nella tabella che segue.

COSÌ IL DIVIETO DI LICENZIAMENTO FINO AL 31 MARZO 2021

Licenziamento collettivo Co. 9 Fino al 31 gennaio 2021 resta precluso l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, e restano altresì sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto di appalto.
Licenziamento individuale Co. 10 Fino al 31 gennaio 2021 resta, altresì, preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all’articolo 7 della medesima legge.

Ricordiamo che la procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, interessa (ed è anzi obbligatoria per) i datori di lavoro che occupano più di 15 dipendenti nell’unità produttiva o nel comune, ovvero più di 60 in tutto, e che intendono licenziare per giustificato motivo oggettivo un dipendente assunto a tempo indeterminato ma non con il contratto a tutele crescenti di cui al D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23.

Eccezioni al divieto di licenziamento

La norma attualmente in vigore ha mantenuto le eccezioni al divieto di recesso originariamente previste dall’articolo 14, co. 3, del D.L. 14 agosto 2020, n. 104. In particolare, il citato articolo 1, co. 11, della legge n. 178/2020, dispone che le preclusioni (ossia il divieto di licenziamento) e le sospensioni (delle procedure) di cui ai co. 9 e 10 non si applicano nelle seguenti ipotesi:

  • licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività, nei casi in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni o attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile;
  • nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale (e, quindi, non dalle sole rappresentanze sindacali aziendali o unitarie), di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, ai quali è comunque riconosciuto il trattamento di cui all’articolo 1 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22, ossia la NASpI (l’Inps non si è ancora espresso sulla questione se il datore debba o meno versare il contributo NASpI, ossia il cosiddetto ticket di licenziamento, anche se riteniamo che la risposta sarà positiva);
  • licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l’esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell’azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso.

Istruzioni Inps

Giunti a questo punto, pare opportuno ricordare quanto precisato dall’Inps al riguardo. In particolare:

  1. l’Inps pagherà comunque la NASpI al lavoratore licenziato durante il periodo in cui operava il relativo divieto, salva la revoca del recesso disposta da parte del datore di lavoro o il caso in cui il dipendente lo abbia impugnato davanti al giudice e, avendo vinto la causa, sia stato reintegrato nel proprio posto di lavoro (Inps, messaggio 1° giugno 2020, n. 2261);
  2. se il rapporto di lavoro viene risolto a seguito dell’adesione del dipendente all’accordo collettivo di cui alla lettera b) del paragrafo precedente, l’accesso alla NASpI per i lavoratori interessati è ammesso fino al termine della vigenza delle disposizioni che impongono il divieto dei licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo;
  3. per accedere alla NASpI, i lavoratori che cessano il rapporto a seguito di accordo collettivo aziendale stipulato dalle organizzazioni sindacali, avente a oggetto un incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro medesimo, sono tenuti, quando presentano la domanda di NASpI, ad allegare l’accordo collettivo aziendale di cui sopra, nonché – qualora l’adesione del lavoratore non si evinca dall’accordo medesimo, ma sia contenuta in altro documento diverso dallo stesso – la documentazione attestante l’adesione al predetto accordo (Inps, messaggio 26 novembre 2020, n. 4464).

FAQ correlate

Link iscrizione multi rubrica