Lavoro e HR

Patto e periodo di prova

Patto e periodo di prova, poche parole e sempre tantissimi problemi. Infatti, al netto delle poche e semplici (almeno in apparenza) regole per l’avvio di un rapporto di lavoro subordinato – preceduto da una sorta di “rodaggio” reciproco – le cause in materia non si contano e sono sempre assai frequenti e dall’esito incerto. Di seguito, anche alla luce delle ultime disposizioni normative, il punto sull’istituto.

Principi generali

Va anzitutto premesso che – al di fuori dei casi in cui l’apposizione della clausola che contiene l’indicazione del periodo di prova è espressamente vietata – l’effettuazione o meno di tale periodo di “reciproco esperimento” è del tutto volontaria, nel senso che le parti, d’accordo tra loro, possono sempre decidere che l’assunzione – indifferentemente, a termine ovvero a tempo indeterminato – avvenga da subito senza periodo di prova; detta ancora più semplicemente: il periodo di prova, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, è un optional.

Al contrario, se il periodo di prova viene espressamente concordato, ciò al fine di permettere sia al datore che al dipendente di valutare la reciproca convenienza alla definitiva instaurazione del rapporto di lavoro, vale quanto segue:

  • il datore di lavoro ha modo di sperimentare le competenze professionali del lavoratore nonché la sua idoneità (anche “caratteriale”) a integrarsi nella propria organizzazione;
  • il lavoratore ha modo di sperimentare se l’esperienza professionale offertagli lo soddisfa e se il clima aziendale gli risulta gradito.

In ogni caso, come dispone l’articolo 2096, co. 2, del codice civile, l’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova.

Non trattandosi di una clausola vessatoria, non occorre la firma separata del patto in esame: in altri termini, la previsione del periodo di prova può ben essere contenuta all’interno del contratto di lavoro, che va tuttavia fatto firmare al dipendente prima che egli inizi a rendere la propria prestazione.

Forma del patto di prova

Premesso che, per quanto concerne il rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche continua a valere quanto già previsto dall’articolo 17 del Decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, nel settore dell’impiego privato vige l’articolo 2096 del codice civile.

Tale norma dispone che l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve (tassativamente) risultare da atto scritto.

Esso, peraltro, può essere stipulato anche se colui o colei che viene assunto/a ha precedentemente svolto un periodo di tirocinio il quale, come noto, costituisce un’esperienza formativa e non già un vero e proprio contratto di lavoro.

La forma scritta presuppone anche la firma del dipendente prima (e mai dopo) che questi inizi a rendere la propria prestazione di lavoro.

Articolo 17 del Decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487
1. I candidati dichiarati vincitori e gli idonei in caso di scorrimento della graduatoria sono invitati dall’amministrazione procedente ad assumere servizio in via provvisoria, sotto riserva di accertamento del possesso dei titoli e dei requisiti prescritti per l’assunzione, e sono assunti in prova, la cui durata è definita in sede di contrattazione collettiva. Per i cittadini di Stati terzi, è obbligatoria la presentazione, prima dell’assunzione, dei documenti comprovanti tutte le dichiarazioni presentate, con le modalità di cui all’articolo 3, co. 4, del TU di cui al DPR 28 dicembre 2000, n. 445, ferma restando la tutela accordata ai rifugiati e ai titolari di protezione sussidiaria.
2. Le pubbliche amministrazioni comunicano alla Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della funzione pubblica il numero dei candidati vincitori ed idonei eventualmente assunti nell’arco di validità della graduatoria di cui all’articolo 15, co. 7.
3. Il vincitore o l’idoneo che non assume servizio senza giustificato motivo entro il termine stabilito, decade dalla assunzione e dalla graduatoria. Qualora il vincitore o l’idoneo assuma servizio, per giustificato motivo, con ritardo sul termine prefissatogli, gli effetti economici decorrono dal giorno di presa di servizio.

Contenuto del patto tra datore di lavoro e dipendente

Il patto scritto tra le parti dovrà quindi indicare, oltre che la durata (nel limite massimo previsto dalla norma, che è pari a 6 mesi, riducibili dal contratto collettivo o individuale), anche le mansioni che formeranno oggetto di valutazione della prestazione resa da parte del dipendente.

A tale ultimo elemento va prestata particolare attenzione, in quanto – ad avviso della giurisprudenza più recente e assolutamente prevalente – la loro mancata indicazione rende nullo il patto per indeterminatezza dell’oggetto.

Vero è che i giudici hanno convalidato il patto in cui le mansioni erano state individuate per relationem, ossia con riferimento alle mansioni individuate da parte del contratto collettivo con riguardo a un determinato livello e/o qualifica, ma è sempre meglio non rischiare, anche perché tale individuazione in relazione alle qualifiche contrattuali deve essere sufficientemente specifica.

→ Attenzione, quindi, a quanto segue:

  • violazione dell’obbligo di stipulare il patto di prova in forma scritta;
  • mancata firma (prima dell’inizio della prestazione) per accettazione del lavoratore;
  • omessa o gravemente incompleta indicazione delle mansioni oggetto di valutazione.

Al ricorrere anche solo di una di tali ipotesi, il patto non viene considerato valido e l’assunzione si ha come definitiva, con conseguente nullità di un eventuale successivo licenziamento per mancato superamento del periodo di prova.

Durata massima del periodo di prova

L’articolo 7 del decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104 (“Attuazione della direttiva UE 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea”), al co. 1, dispone espressamente che – nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a 6 mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi.

Tale previsione circa la durata massima richiama quella già contenuta nell’articolo 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604, a mente del quale le disposizioni della medesima legge si applicano agli operai, impiegati e quadri e, per quelli assunti in prova, si applicano dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi 6 mesi dall’inizio del rapporto di lavoro.

Di fatto, la durata è oggi prevista dai contratti collettivi nazionali i quali, non di rado, la graduano in relazione alla categoria (dirigente, quadro, impiegato od operaio) e/o al livello di inquadramento del dipendente. Peraltro, ai sensi dell’articolo 4, co. 1, del decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104, che ha modificato l’articolo 4, co. 1, lettera h), del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, tra le altre, il datore di lavoro pubblico e privato è tenuto a comunicare al lavoratore, secondo le modalità di cui al comma 2 (si veda il box che segue), le informazioni relative alla durata del periodo di prova, ovviamente nei soli casi in cui esso sia previsto.

L’obbligo di informazione di cui al co. 1 è assolto mediante la consegna al lavoratore, all’atto dell’instaurazione del rapporto di lavoro e prima dell’inizio dell’attività lavorativa, alternativamente:
a) del contratto individuale di lavoro redatto per iscritto;
b) della copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro di cui all’articolo 9-bis del decreto legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito, con modifiche, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608.

Sospensione della prova

L’articolo 7, co. 3, del decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104, stabilisce che, in caso di sopravvenienza di eventi quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.

In relazione a tale previsione, il Ministero (cfr. Ministero del Lavoro, circolare 20 settembre 2022, n. 19), ha precisato quanto segue:

  • il co. 3 stabilisce che il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza, richiamando – a titolo meramente esemplificativo – la sopravvenienza di eventi quali malattia, infortunio, congedo di maternità/paternità obbligatori: l’indicazione di tali assenze, coerentemente con quanto previsto nella direttiva e come si evince dal tenore letterale della disposizione, non ha carattere tassativo e dunque rientrano nel campo di applicazione del co. 3 tutti gli altri casi di assenza previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva (nazionale, territoriale e/o aziendale), fra cui anche i congedi e i permessi di cui alla legge n. 104/1992;
  • ciò risponde al principio di effettività del periodo di prova, in forza del quale è stata riconosciuta valenza sospensiva dello stesso alla mancata prestazione lavorativa causata da malattia, infortunio, gravidanza, puerperio, permessi, sciopero, sospensione dell’attività da parte del datore di lavoro;
  • trattandosi di un principio consolidato nell’ordinamento giuridico nazionale, appare evidente che se l’elencazione di cui al terzo comma dell’articolo 7 fosse considerata esaustiva delle ipotesi di sospensione del periodo di prova, si avrebbe una riduzione generale del livello di protezione riconosciuto ai lavoratori, in contrasto con l’articolo 20 della direttiva (UE) 2019/1152. Ciò a ulteriore conferma del fatto che l’elencazione di cui al co. 3 è puramente esemplificativa e non già esaustiva delle ipotesi di prolungamento del periodo di prova, nel cui novero si devono intendere ricomprese tutte quelle già riconosciute dall’attuale ordinamento giuridico.

Esito positivo della prova: conseguenze

Se, al termine del periodo di prova, la valutazione del dipendente e del datore circa l’esito di tale esperimento è positiva, non occorre fare nulla: in assenza di recesso di una delle due parti del rapporto, esso prosegue regolarmente fino alla sua scadenza (se si tratta di un contratto a termine) ovvero a tempo indeterminato.

Il fatto che non vi sia alcun obbligo di comunicazione in capo al datore di lavoro non deve indurre a sottovalutare l’opportunità di un colloquio con il dipendente che faccia “il punto” sull’andamento delle fasi iniziali del rapporto e/o di una comunicazione scritta di conferma in servizio (certamente non obbligatoria ai sensi di legge ma probabilmente utile, specie se vista in un’ottica di attenzione alle risorse umane).

In buona sostanza, come dispone l’articolo 2096, co. 4, del codice civile, una volta che sia compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro.

Esito negativo della prova: recesso del dipendente

Nel caso in cui, durante o al termine del periodo di prova, il dipendente non ritenga vantaggiosa, dal proprio punto di vista, la prosecuzione del rapporto con quel determinato datore di lavoro, può recedere liberamente, semplicemente manifestando la propria volontà di “liberarsi”.

In tal caso, vista la particolarità dell’assunzione “in prova”, non occorre sottostare alle modalità formali che sono previste dall’articolo 26 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151.

In altri termini, come precisato dal Ministero del Lavoro (al riguardo si veda la circolare 4 marzo 2016, n. 12), il dipendente può “dimettersi” senza necessità di inviare l’apposito modulo telematico e senza il supporto di una cd. “sede protetta” o commissione di certificazione.

Nell’ipotesi in esame, quindi, il lavoratore che intenda recedere può farlo liberamente, senza dover necessariamente ricorrere a particolari formalità, fermo restando che una breve comunicazione scritta, datata e firmata, è certamente opportuna, se non altro ai fini della prova.

Esito negativo della prova: recesso del datore

Nel caso in cui la prestazione resa da parte del dipendente non sia giudicata soddisfacente da parte del datore di lavoro, quest’ultimo può sempre e tranquillamente recedere, purché il termine finale del periodo di prova non sia ancora stato superato.

A tale riguardo, la norma – ossia l’articolo 2096, co. 3, del codice civile – è chiara e si limita a disporre che, durante il periodo di prova, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine.

Ma vi è di più: la Corte Costituzionale – con la sentenza 4 dicembre 2000, n. 541 – ha escluso che durante il periodo di prova il licenziamento del lavoratore debba avvenire con la forma scritta. Il che, tuttavia, non impedisce al datore di consegnare una sintetica comunicazione scritta nella quale si precisi unicamente il recesso durante il periodo di prova.

Vero è che, se il contratto collettivo o individuale così prevede, l’obbligo di indicare la motivazione torna in essere, specialmente nel caso in cui si tratti di un lavoratore appartenente alle cd. categorie protette.

A tale specifico riguardo, la Corte Costituzionale (ancora nella motivazione della sentenza 4 dicembre 2000, n. 541) ha richiamato la propria precedente giurisprudenza (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 18 maggio 1989, n. 255) a mente della quale il patto di prova è compatibile con l’assunzione obbligatoria di detti lavoratori, a condizione che la prova tenga conto delle minorate capacità lavorative dell’interessato.

Maternità e paternità

Disposizioni ad hoc tutelano le lavoratrici in relazione a situazioni peculiari. Anzitutto, l’articolo 54, co. 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, vieta il licenziamento delle lavoratrici dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di 1 anno di età del bambino.

Quale eccezione a tale regola generale, il co. 3, lettera d), dispone che il divieto di licenziamento non si applica nel caso di esito negativo della prova; resta fermo il divieto di discriminazione di cui all’articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e successive modificazioni (va però evidenziato che tale ultimo articolo è stato abrogato dall’articolo 57 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198).

Inoltre, ai sensi del co. 7, in caso di fruizione del congedo di paternità, di cui agli articoli 27-bis e 28, il divieto di licenziamento si applica anche al padre lavoratore per la durata del congedo stesso e si estende fino al compimento di un anno di età del bambino. Si applicano le disposizioni del medesimo articolo 54, co. 3, 4 e 5.

Patto di prova e contratti “atipici”

La possibile previsione del patto di prova all’interno di un contratto di lavoro cd. “atipico” è talvolta regolata da una norma di legge, e talaltra è invece lasciata alla libera decisione delle parti. Di seguito il punto sulle ipotesi più rilevanti.

Lavoro Intermittente – Per esempio, va considerato che – ove si tratti di un contratto di lavoro intermittente (cd. contratto “a chiamata”) – la previsione del patto di prova (ancorché del tutto legittima) potrebbe avere poco senso, specialmente nel caso in cui si tratti di una prestazione di breve durata: è evidente che, nel caso in cui la prestazione del lavoratore non risulti soddisfacente, il datore può limitarsi a non richiamarlo più in futuro.

Contratto a termine – In relazione alla tipologia contrattuale disciplinata dagli articoli da 19 a 29 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, la novità risiede nella previsione di cui all’articolo 7, co. 2, del decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104, in cui si stabilisce quanto segue:

  • nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego;
  • in caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova.

Lavoro a tempo parziale – L’articolo 7, co. 2, secondo periodo del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, dispone che – se il contratto prevede lo svolgimento di un orario inferiore rispetto a quello considerato come “normale” – i contratti collettivi (siano essi quelli nazionali, territoriali e/o aziendali) possono modulare la durata del periodo di:

  • prova;
  • preavviso in caso di licenziamento o dimissioni;
  • conservazione del posto di lavoro in caso di malattia ed infortunio;

in relazione all’articolazione dell’orario di lavoro. Attenzione però: tale possibilità di “modulazione” differenziata – assai utile nel caso di part time verticale o misto – non è affatto necessaria nel caso del contratto di lavoro subordinato a tempo parziale che viene svolto in modalità “orizzontale”: in tal caso, infatti prova, preavviso e comporto hanno la durata ordinaria prevista per i rapporti a tempo pieno.

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