Il lavoro intermittente dopo il Jobs Act
Come ormai noto, in attuazione della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, lo scorso 25 giugno è entrato in vigore il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, che ha operato una profonda revisione della disciplina delle mansioni e di tutte le tipologie contrattuali: da questo intervento normativo – che potremmo definire di “manutenzione straordinaria” non è rimasto escluso neppure il contratto di lavoro intermittente (noto anche come “lavoro a chiamata” o “job on call”), che è ora disciplinato negli articoli da 13 a 18 del nuovo decreto legislativo.
Va subito premesso che il contratto di lavoro intermittente – si tratta di un rapporto di lavoro subordinato a tutti gli effetti – può essere stipulato tanto a tempo indeterminato quanto “a termine”: in questo caso, tuttavia, non si applicano le disposizioni vigenti per il contratto a tempo determinato vero e proprio. Dal che ne discende che, salvo diversa previsione del contratto collettivo (peraltro tale possibilità di intervento da parte delle parti sociali non è prevista dalla norma), non operano i limiti numerici all’assunzione, la durata massima di tutti i rapporti, il diritto di precedenza e così via.
Venendo al dunque, il contratto di lavoro intermittente è il contratto mediante il quale un soggetto si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno.
In mancanza di contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. A tale proposito va evidenziato il Ministero del lavoro, con decreto 23 ottobre 2004, aveva ammesso (anche se con riferimento alle norme ormai abrogate del D.Lgs. n. 276/2003) la stipulazione di contratti di lavoro intermittente con riferimento alle attività indicate nella tabella allegata al regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657, che individua tutte quelle occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia (per esempio: guardiani, portinai, fattorini, camerieri, commessi di negozio e così via). Ci si è chiesti da più parti, laddove il contratto collettivo non individui i casi in cui è ammesso il lavoro intermittente, se sia ancora possibile fare riferimento alle attività di cui al regio decreto del 1923: la risposta pare essere positiva, dato che né il decreto ministeriale del 2004 né il regio decreto sono stati abrogati.
In ogni caso, laddove il contratto collettivo – incluso quello aziendale – non disciplini il lavoro intermittente, ovvero non contempli l’attività di interesse del datore di lavoro, tale contratto può in ogni caso essere concluso con soggetti:
- con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il 25° anno;
- e con più di 55 anni.
Si tratta del cd. requisito soggettivo, ossia quello basato unicamente sull’età del lavoratore.
La nuova disposizione ha poi confermato il tetto alle prestazioni di lavoro intermittente: infatti – salva l’eccezione di cui si dirà subito dopo – il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari. Se tale periodo massimo viene superato, il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. A tale regola fanno eccezione i settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo: come precisato dal Ministero del lavoro (si veda la Nota 7 novembre 2014, n. 26), i datori di lavoro interessati dall’esenzione sono:
- quelle iscritti alla Camera di Commercio con il codice attività ATECO 2007 corrispondente ai citati settori produttivi;
- quelli che, pur non rientrando nel Codice ATECO corrispondente ai settori in questione, svolgano attività proprie del settore turismo, pubblici esercizi e spettacolo applicando i relativi contratti collettivi.
Come dispone l’articolo 14 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, è vietato il ricorso al lavoro intermittente:
- per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
- presso unità produttive (e non l’azienda nel suo complesso) nelle quali si è proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi a norma degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente, ovvero presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente;
- per i datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Accertata la non operatività dei divieti di cui sopra, il contratto deve essere stipulato in forma scritta ai fini della prova, indicando quanto segue:
- durata e ipotesi, oggettive o soggettive, che consentono la stipulazione del contratto;
- luogo e modalità della disponibilità, eventualmente garantita dal lavoratore, e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore, che non può essere inferiore a 1 giorno lavorativo;
- trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita e relativa indennità di disponibilità, ove prevista;
- forme e modalità, con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l’esecuzione della prestazione di lavoro, nonché modalità di rilevazione della prestazione;
- tempi e modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità;
- misure di sicurezza necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto.
Stipulato il contratto e inviato l’Unilav, prima dell’inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a 30 giorni, il datore di lavoro deve comunicarne la durata alla direzione territoriale del lavoro competente per territorio, mediante sms o posta elettronica (con decreto del Ministro del lavoro possono essere individuate ulteriori modalità di comunicazione in funzione dello sviluppo delle tecnologie). In caso di violazione degli obblighi di cui sopra si applica la sanzione amministrativa da 400 a 2.400 euro per ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione.
Infine, nei periodi in cui non ne viene utilizzata la prestazione, il lavoratore intermittente non matura alcun trattamento economico e normativo, salvo che abbia garantito al datore di lavoro la propria disponibilità a rispondere alle chiamate, nel qual caso gli spetta l’indennità di disponibilità.