Lavoro e HR

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Licenziamento e Indennità sostitutva della reintegrazione

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che, una volta che il licenziamento sia stato dichiarato illegittimo e il lavoratore abbia chiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione, il rapporto si risolve definitivamente e, pertanto, il datore che ritarda il pagamento deve corrispondere solo gli interessi su quanto dovuto e non l’intera retribuzione teoricamente spettante finché non adempie.
 
La modifica della disciplina dei licenziamenti individuali, e in particolare dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), che è stata introdotta con la Riforma Fornero ha fatto sì che, nelle imprese di maggiori dimensioni, la conseguenza di un licenziamento illegittimo non sia più, sempre e in ogni caso, la reintegrazione del lavoratore.
Prima di esaminare le ipotesi particolari in cui si applica l’articolo 18 in relazione a giusta causa e giustificato motivo, ricordiamo che la reintegrazione è invece sempre prevista, a prescindere dal numero di dipendenti occupati, nei seguenti casi di licenziamento:
a) intimato solamente in forma orale, ossia non per iscritto;
b) discriminatorio (ad esempio per motivi sindacali);
c) durante il periodo protetto di maternità;
d) per altri motivi illeciti, quali la ritorsione.
Negli altri casi, ossia quando l’atto del datore di lavoro viene dichiarato illegittimo per:
a) la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo;
b) perché non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, in quanto il fatto contestato non esiste o perché esso rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili;
c) il mancato rispetto del periodo di comporto (e qualche altra ipotesi di minore rilevanza);
la reintegrazione è possibile a condizione che il datore di lavoro occupi, come si usa dire, “più di 15 dipendenti”.
Se il requisito numerico è rispettato e il licenziamento è illegittimo perché esso rientra in una delle ipotesi tassative appena ricordate, il giudice ordina al datore di lavoro di “reintegrare” il dipendente nel proprio posto di lavoro, condannandolo altresì a erogare un certo numero di mensilità di retribuzione.
A questo punto, in alternativa alla reintegrazione – e fermo il diritto a percepire a titolo di risarcimento del danno il numero di mensilità stabilite dal giudice – il lavoratore può decidere di optare per la richiesta dell’indennità sostitutiva della reintegrazione. In parole più semplici, egli rinuncia a “riavere indietro” il proprio posto di lavoro chiedendo (anche se sarebbe più corretto dire “intimando”) al datore di lavoro di erogare un’indennità sostitutiva, la cui misura è stata stabilita direttamente dal legislatore in 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Una nota importante e che diminuisce il costo – peraltro già assai elevato del recesso – è relativa al fatto che tale indennità non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
Dal punto di vista pratico evidenziamo che la richiesta dell’indennità sostitutiva va effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore a tale comunicazione; e che tale domanda da parte dell’ex dipendente determina la risoluzione del rapporto di lavoro non appena giunge a conoscenza del datore di lavoro.
Accade tuttavia abbastanza spesso che il datore di lavoro, di propria volontà, per ragioni economiche o altre motivazioni, tardi a erogare l’indennità sostitutiva richiesta da parte del lavoratore, alla quale egli non può opporsi in alcun modo. Cosa avviene in tal caso?
Sino a pochi giorni fa la giurisprudenza aveva posizioni radicalmente divergenti. Infatti, a un orientamento secondo il quale per tutto il periodo di ritardo era dovuta la normale retribuzione, se ne contrapponeva uno opposto il quale, invece, affermava che – alla luce del fatto che la richiesta del lavoratore dell’indennità sostitutiva dà luogo alla risoluzione del rapporto – a partire dal momento della richiesta, e sino all’effettivo pagamento dell’indennità della quale ci stiamo occupando, in caso di ritardato pagamento erano dovuti solamente gli interessi legali e la rivalutazione monetaria.
Ebbene, la questione giunta davanti alle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione è stata risolta in modo conforme all’ultimo dei due orientamenti citati sopra. In particolare, nella motivazione della recentissima sentenza n. 18353 del 27 agosto 2014, le Sezioni Unite hanno affermato, in sostanza, il seguente principio: “ove il lavoratore illegittimamente licenziato nel regime della cd. tutela reale opti per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, avvalendosi della facoltà prevista dall’articolo 18 della legge n. 300/1970, il rapporto di lavoro si estingue con la comunicazione al datore di lavoro di tale opzione senza che permanga, per il periodo successivo in cui la prestazione lavorativa non è dovuta dal lavoratore né può essere pretesa dal datore di lavoro, alcun obbligo retributivo, con la conseguenza che l’obbligo riguardante il pagamento di tale indennità è soggetto al solo pagamento degli interessi legali e della rivalutazione monetaria sugli importi dovuti”.
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A cura di Alberto Bosco – Esperto di diritto del lavoro, Giuslavorista, Pubblicista de Il Sole24Ore. Consulente aziendale e formatore

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