Lavoro e HR

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Licenziamento e tutele crescenti: tutte le novità

Dopo l’emanazione del decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, cd. decreto dignità (convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2018, n. 96), non c’è pace per la disciplina dei licenziamenti: in pochi mesi, infatti, si sono succedute ben 3 importantissime novità, che però riguardano esclusivamente i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti di cui al decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23.
 
Campo di applicazione – Ma andiamo con ordine. Il decreto legislativo n. 23/2015, emanato nell’ambito del cd. Jobs Act, ha introdotto uno specifico regime di tutela (in caso di licenziamento illegittimo) nei confronti dei dipendenti in possesso di anche solo una di queste caratteristiche:

a) operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015;

b) ex dipendenti a termine o apprendisti, il cui contratto è stato convertito a tempo indeterminato, a partire dal 7 marzo 2015;

c) tutti i dipendenti, inclusi quelli già precedentemente in forza, se il datore di lavoro, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute dal 7 marzo 2015, supera la soglia di 15 dipendenti nell’unità produttiva o nel comune, ovvero quella dei 60 in Italia.

 
Licenziamento illegittimo: regime ante decreto dignità – Nel testo originario della norma, ossia in quello precedente alle modifiche introdotte dal decreto legge n. 87/2018 e dalla successiva legge di conversione, eccetto i pochi casi in cui spetta la reintegrazione nel posto di lavoro, in caso di illegittimità del recesso, era previsto un risarcimento economico basato unicamente sull’anzianità di servizio del lavoratore, quantificato come di seguito:

a) datori fino a 15 dipendenti nell’unità produttiva o nel comune ovvero fino a 60 dipendenti in tutto: 1 mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 2 e un massimo di 6, avuto riguardo alla retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto;

b) datori con un numero di dipendenti superiore a quello di cui appena sopra: 2 mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 e un massimo di 24, avuto riguardo alla retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

 
Licenziamento illegittimo: testo modificato – A decorrere dal 14 luglio 2018, in base a quanto previsto dal decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, la situazione è stata radicalmente modificata “a danno” dei datori di lavoro. In pratica, per i licenziamenti intimati a partire da tale data in poi e ritenuti illegittimi dal giudice, l’indennità era (il “passato” è d’obbligo, vista la sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale, di cui si dirà tra breve) così determinata:

a) datori fino a 15 dipendenti nell’unità produttiva o nel comune ovvero fino a 60 dipendenti in tutto: 1 mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 3 e un massimo di 6, avuto riguardo alla retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto;

b) datori con un numero di dipendenti superiore a quello di cui appena sopra: 2 mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 6 e un massimo di 36, avuto riguardo alla retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

 
Come ben si evince, avendo a riferimento un datore di maggiori dimensioni (e cioè con più di 15 dipendenti nell’unità produttiva o nel comune o più di 60 in tutto), l’importo minimo del risarcimento sale da 4 a 6 mensilità, e quello massimo da 24 a 36 dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
 
L’intervento della Corte Costituzionale – Su questa “rinnovata” disciplina di tutela si è espressa la Corte Costituzionale la quale, con la recentissima sentenza 8 novembre 2018, n. 194 – precisando che, nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato (da 3 a 6 mensilità per le PMI, da 6 a 36 mensilità negli altri casi), il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio, e poi anche degli altri criteri desumibili dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti) – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, co. 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti) – sia nel testo originario che nel testo modificato dall’articolo 3, co. 1, del decreto legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96 – limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
 
Conseguenze – Ne deriva che il giudice, fermi i limiti minimo e massimo, peraltro aumentati dal decreto dignità (da 3 a 6 mensilità per le PMI, da 6 a 36 mensilità per i datori di maggiori dimensioni) non dovrà considerare solo la “anzianità aziendale” del lavoratore ma potrà fare riferimento – per stabilire “la penale” – anche al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’attività economica nonché al comportamento e alle condizioni delle parti.
È del tutto evidente che, per i datori di lavoro, non si tratta di una buona notizia, in quanto diventa assolutamente variabile e incerto l’importo da erogare a fronte di un licenziamento giudicato illegittimo: un datore “grande” ora rischia di erogare un risarcimento oscillante tra 6 (garantite, in quanto si tratta del “minimo”) e 36 mensilità (ossia il 500% in più).
Proprio alla luce di tale sentenza, anticipata da un comunicato stampa ufficiale del 26 settembre 2018, il Tribunale di Bari, considerati tutti gli elementi sopra enunciati, a fronte delle 4 mensilità che sarebbero spettate al lavoratore licenziato (prima del decreto dignità) dopo neanche 2 anni di servizio, ha ritenuto di elevare tale somma a 12 mensilità.
 
Conclusioni – Resta da capire se la scelta del legislatore, insieme a quella che ha introdotto le “causali” per i contratti a termine e ne ha ridotto la durata massima da 36 a 24 mesi, invoglierà gli imprenditori a inserire nuovi dipendenti, dato che l’assunzione a termine diventa più incerta e costosa (aumento del contributo addizionale di 0,5 punti per ogni rinnovo) e i contratti a tempo indeterminato appaiono assai più rischiosi, vista l’incertezza del costo (assai elevato) della loro risoluzione, quantomeno ove ritenuta non corretta dal giudice.
 
 
A cura di Alberto Bosco – Esperto di diritto del lavoro, Giuslavorista, Pubblicista de Il Sole24Ore. Consulente aziendale e formatore

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