Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage
Le modifiche introdotte prima dalla Riforma Fornero nel 2012 e poi dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (che disciplina il contratto a tutele crescenti), hanno interessato anche il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Si tratta, è bene precisarlo subito, del licenziamento individuale determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, come dispone l’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604.
In questo caso è quindi evidente come il motivo che conduce alla risoluzione del rapporto, anche se per iniziativa del datore di lavoro, non è mai legato a un comportamento riprovevole o poco consono del dipendente (e quindi a una ragione disciplinare) ma deve essere ricercato piuttosto nella situazione aziendale. A tale proposito va subito chiarito che il “giustificato motivo oggettivo” individuato dalla norma c’entra poco o nulla con i cd. “motivi economici” che vengono talvolta richiamati sulla stampa non specializzata.
Deve quindi essere tenuto ben presente che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere determinato non già da una situazione di crisi più o meno grave (peraltro sempre possibile), ma anche da una riorganizzazione aziendale, dalla soppressione di un reparto o di un singolo posto di lavoro, che il datore di lavoro potrebbe decidere in base all’articolo 41 della Costituzione, il quale garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata, consentendo così al datore medesimo di far cessare una determinata produzione, di affidare all’esterno un’attività sino a quel momento svolta “in casa”, entrare o uscire da un mercato, e così via.
Ma quali sono gli elementi che il datore di lavoro deve dimostrare per uscire vincitore da un eventuale contenzioso? Prendendo a esempio un lavoratore addetto all’ufficio paghe – il quale sia quindi incaricato di: elaborare i cedolini, effettuare le trattenute di legge nonché tutte le operazioni di versamento di contributi e imposte, eccetera – e ipotizzando che il datore decida di affidare “all’esterno” (tipicamente: a un consulente del lavoro abilitato) tali compiti, quando il recesso potrà dirsi legittimo? In altre parole, cosa occorre dimostrare al giudice?
Premesso che la decisione di affidare all’esterno tutte quelle attività che non costituiscono il vero e proprio “core business” dell’azienda è certamente sempre legittima, il datore di lavoro deve quindi dimostrare, se non vuole perdere la causa, quanto segue:
a) anzitutto che è vero che ha affidato al consulente le attività di cui sopra: tale prova è facilmente raggiungibile esibendo il contratto di incarico e le fatture del professionista che ha reso le prestazioni concordate;
b) che il lavoratore licenziato è proprio quello che svolgeva le attività affidate all’esterno: si tratta del nesso di causalità;
c) infine, e qui occorre fare molta attenzione, che è stato rispettato il cd. “obbligo di repêchage”, ossia che il recesso è legittimo anche alla luce del fatto che, nell’impresa, non vi è alcun altro posto di lavoro libero al quale il lavoratore potrebbe essere assegnato onde conservargli l’occupazione.
Proprio con riguardo a tale ultimo punto occorre fare molta attenzione. Infatti, l’articolo 2103 del codice civile, come modificato dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, a partire dal 25 giugno 2015, dispone che nelle sedi di cui all’articolo 2113, comma 4 (e quindi in sede protetta), o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore:
a) alla conservazione dell’occupazione;
b) all’acquisizione di una diversa professionalità;
c) o al miglioramento delle condizioni di vita.
Nel corso della procedura, il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante della associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, da un avvocato o un consulente del lavoro.
Tenendo presente che, secondo la giurisprudenza più recente, se il lavoratore estromesso rivendica la propria assegnazioni a mansioni diverse egli ha l’obbligo di indicarle, va evidenziato come la novità introdotta con il Jobs Act complichi in qualche misura la vita delle imprese, posto che è ora possibile (come indicato alla lettera a), ossia al fine di salvaguardare il posto di lavoro), stipulare un accordo individuale con il quale si dispone la modifica delle mansioni, della categoria legale (dirigenti, quadri, impiegati e operai), del livello di inquadramento e della relativa retribuzione. Tale disposizione, pur se indirettamente, rafforza proprio l’obbligo di repechage, la cui violazione – anche se il licenziamento non viene annullato – può comportare la condanna del datore di lavoro a pagare un’indennità per la quale è previsto un tetto massimo pari a 24 mensilità dell’ultima retribuzione.
Un altro punto di fondamentale rilevanza è quello relativo all’impugnazione, che deve avvenire – a pena di decadenza – entro 60 giorni dal momento del recesso. Essa è poi inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Se la conciliazione o l’arbitrato richiesti sono rifiutati o non è raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice va depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
Da ultimo, resta da affrontare la questione relativa al risarcimento spettante al dipendente in caso di illegittimità del recesso. Nelle PMI, ossia per i datori fino a 15 dipendenti, la situazione è la seguente:
a) lavoratori non soggetti alle tutele crescenti: riassunzione o risarcimento del danno con un’indennità di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità (fino a 14 in casi particolari);
b) lavoratori soggetti alle tutele crescenti: risarcimento del danno con un’indennità di importo compreso tra 2 e 6 mensilità.
Invece, nel caso dei datori di maggiori dimensioni, vanno tenute distinte le seguenti ipotesi:
a) lavoratori non soggetti alle tutele crescenti (regola generale): il giudice dichiara risolto il rapporto con effetto dalla data del recesso e condanna il datore a pagare un’indennità risarcitoria onnicomprensiva da 12 a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
b) lavoratori non soggetti alle tutele crescenti (se il giudica accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per GMO): il giudice annulla il recesso, ordina la reintegra nel posto e condanna il datore a pagare al lavoratore un’indennità di importo massimo pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
c) lavoratori assunti in base alle tutele crescenti (tutti i casi): risarcimento pari a 2 mensilità (con un minimo di 4) per ogni anno di anzianità, con un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
A cura di Alberto Bosco – Esperto di diritto del lavoro, Giuslavorista, Pubblicista de Il Sole24Ore. Consulente aziendale e formatore.