Malattia del lavoratore e licenziamento
Una recentissima sentenza della Cassazione ha dichiarato legittimo il licenziamento del lavoratore il quale, pur non avendo superato il periodo di comporto, si renda protagonista di numerose e reiterate assenze per malattia, specialmente dopo i giorni di riposo e prima di iniziare i turni notturni. Facciamo quindi il punto su questo importante argomento.
La tutela del lavoratore assente per malattia costituisce un principio di costituzionale (l’articolo 38 della nostra Costituzione prevede, infatti, che i lavoratori hanno diritto che siano assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria), reso concreto dal codice civile, il quale – all’articolo 2110 – dispone che in caso di malattia:
a) è dovuta al lavoratore la retribuzione o un’indennità, nella misura e per il tempo che sono normalmente stabiliti da parte del contratto collettivo;
b) l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118 (ossia osservando il periodo di preavviso), una volta che sia decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità. Anche in questo caso, di fatto, è il contratto collettivo a stabilire la durata massima dell’assenza prima che possa essere risolto il rapporto di lavoro.
Il periodo di conservazione del posto di lavoro, durante il quale il potere del datore di lavoro di licenziare è sospeso, è definito “periodo di comporto”. In pratica, nel corso degli anni, i contratti collettivi hanno disciplinato due distinti periodi di comporto, che sono definiti “secco” e “per sommatoria”.
Nel primo caso si tratta di un unico episodio morboso, continuo e di lunga durata: è tale – a seconda di quanto previsto nei diversi CCNL – un’unica malattia che, per esempio, comporti l’assenza del dipendente per più di 180 giorni continuativi.
La seconda ipotesi, ossia il comporto “per sommatoria” si realizza quando, nell’arco temporale previsto dal CCNL (per esempio l’ultimo anno solare, ossia gli ultimi 365 giorni di calendario), il lavoratore rimanga assente per malattia (a seguito di numerose assenze ciascuna delle quali di breve durata) per almeno 1 giorno in più di quello massimo previsto dal medesimo contratto collettivo (per esempio: più di 180 giorni, sommando tutte le assenze).
Va ricordato che spesso i contratti collettivi prevedono durate diversificate del periodo di comporto a seconda che si tratti di malattie “comuni”, ovvero di patologie assai gravi, quali tumori, leucemie e così via: in questo secondo caso, se il lavoratore produce la certificazione sanitaria dalla quale risulta che si tratta di “patologie gravi”, si applica il periodo di comporto più lungo, sempre nella misura stabilita dal contratto collettivo.
Una volta superati i limiti massimi consentiti, fatto salvo il caso in cui il lavoratore non chieda di fruire delle ferie arretrate ovvero l’ipotesi in cui il CCNL preveda la possibilità di richiedere un periodo di aspettativa non retribuita, il datore di lavoro può licenziare.
A tale proposito, si ricorda che è necessario dare il preavviso previsto dal contratto collettivo, ovvero – ove il recesso sia comunicato con effetto immediato – erogare un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.
Una questione importantissima riguarda la forma del licenziamento: è fondamentale che la comunicazione del recesso sia fatta per iscritto, specificando che è stato superato il periodo di comporto. Quanto alla prova, è consigliabile allegare alla lettera l’elenco delle assenze con indicazione della relativa durata e il totale; in alternativa è possibile, sempre nella comunicazione del licenziamento in cui si indica il numero totale delle giornate di assenza, precisare che l’elenco dettagliato è a disposizione del lavoratore.
Sulle regole generali in materia, sin qui sinteticamente riepilogate, è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza 4 settembre 2014, n. 18678, nella quale si afferma un principio di grande rilevanza pratica per tutti i datori di lavoro. Nella vicenda alla quale ci riferiamo, un lavoratore aveva presentato ricorso contro il recesso per giustificato motivo oggettivo che gli era stato intimato in quanto, pur non avendo superato il periodo di comporto, era stato comunque licenziato a seguito di numerose assenze per malattia, tutte di breve durata.
In pratica, la Corte d’Appello – dando ragione al datore di lavoro – aveva ritenuto che da tali assenze, definite “a macchia di leopardo”, comunicate all’ultimo momento, con conseguente mancanza di continuità e proficuità, anche se non superiori al periodo di comporto, derivava una “prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile da parte della società, risultando la stessa inadeguata sotto il profilo produttivo, e pregiudizievole per l’organizzazione aziendale”.
Nel decidere sul ricorso, la Cassazione ha recepito il ragionamento dei giudici di secondo grado, e ha ritenuto che la condotta del lavoratore non potesse essere regolata dalla disciplina del periodo di comporto, configurandosi invece– in questa particolare ipotesi – lo “scarso rendimento”.
Ma quando si può parlare di “scarso rendimento”? La risposta viene – e si tratta di un parametro “numerico” assai utile anche per eventuali casi futuri – quando, come nel caso che stiamo esaminando, il lavoratore si assenti 2 o 3 volte nel mese, quasi sempre dopo i turni di riposo, per 5 anni consecutivi per il seguente numero di ore: 520, 232, 168, 368, 248. Si tratta, riconducendo tutto a “giornate di lavoro”, di assenze che vanno da un minimo di 21 a un massimo di 65 giorni ogni anno.
In pratica, come chiarito dalla Cassazione, in questo caso la malattia non è venuta in rilievo di per sé, ma in quanto le assenze in questione, anche se incolpevoli, davano luogo a scarso rendimento e rendevano la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale, la quale subiva degli “scompensi organizzativi”. La Corte ha poi valutato anche il fatto che le assenze comunicate all’ultimo momento determinavano la difficoltà, proprio per i tempi particolarmente ristretti, di trovare un sostituto, considerato, fra l’altro che il lavoratore si assentava proprio quando doveva effettuare il turno di fine settimana o quello notturno, il che causava ulteriori problemi nella sostituzione, oltre che malumori nei colleghi che dovevano provvedere alla sostituzione.
In conclusione, nella generalità dei casi continua certamente ad applicarsi la regola secondo la quale, per poter licenziare in caso di malattia, è necessario che sia stato superato il periodo di comporto ma, con questa sentenza, la Cassazione apre le porte a una diversa valutazione, che consente al datore di lavoro di recedere ugualmente (e anticipatamente) nel caso in cui le assenze “a macchia di leopardo” incidano negativamente sulla propria attività produttiva.
A cura di Alberto Bosco – Esperto di diritto del lavoro, Giuslavorista, Pubblicista de Il Sole24Ore. Consulente aziendale e formatore