Lavoro e HR

Sanzioni disciplinari

La violazione dei doveri di diligenza e collaborazione – che il dipendente assume a proprio carico all’atto della firma del contratto di lavoro – può comportare una reazione del datore di lavoro che si sostanzia nell’applicazione di una serie, tipizzata sia dalla legge che dai contratti collettivi, di sanzioni disciplinari, le quali, in relazione alla gravità del fatto che è stato commesso, vanno dal semplice richiamo verbale sino ad arrivare, nei casi più rilevanti, al licenziamento per giustificato motivo soggettivo (con preavviso) oppure per giusta causa (senza preavviso). Di seguito il punto sull’istituto.

Principi generali sulle sanzioni disciplinari

Per comprendere appieno il fondamento del potere disciplinare, che l’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (cd. Statuto dei Lavoratori), mette nelle mani del datore di lavoro, occorre prendere le mosse da quanto prevede – nell’ambito del lavoro subordinato privato – il codice civile e, segnatamente, dagli articoli 2104, 2105 e 2106: a tale riguardo, si veda quanto precisato nella tabella che segue.

Fonti del potere disciplinare
Articolo 2104Diligenza del prestatore di lavoroIl prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.
Articolo 2105Obbligo di fedeltàIl prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore(1), né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
Articolo 2106Sanzioni disciplinariL’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione e in conformità delle norme corporative. Va rilevato che, alla luce dell’avvenuta abrogazione dell’ordinamento corporativo, tale riferimento è privo di effetto; in loro vece, oggi, occorre aver riguardo a quanto previsto dalla contrattazione collettiva di livello nazionale, territoriale e/o aziendale.
(1) Il divieto di concorrenza qui previsto, che si attua mentre il rapporto di lavoro è in corso di svolgimento, non deve essere confuso con il “patto di non concorrenza” vero e proprio, come disciplinato dall’articolo 2125 del codice civile, che riguarda il divieto di concorrenza dopo che il rapporto di lavoro subordinato è cessato.

Affissione del codice disciplinare sul luogo di lavoro

La prima condizione – assolutamente utile ma non necessaria in ogni singolo possibile caso (come preciseremo tra breve) – è la preventiva affissione del codice disciplinare.

In particolare, l’articolo 7, co. 1, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dispone che le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata e alle procedure di contestazione delle stesse, devono:

  • essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti;
  • applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano.

Lo scopo della norma è chiaro: il lavoratore deve essere informato – ovviamente in anticipo – su quali sono le ipotetiche condotte che non possono essere tollerate; in pratica, quindi, quali sono i comportamenti corretti da tenere e, per converso, quelli vietati, passibili dell’applicazione di sanzioni disciplinari.

In base alla giurisprudenza nota in materia, quanto all’affissione del codice disciplinare, pare utile evidenziare i seguenti principi:

  • visto che la norma fa esplicito riferimento alla “affissione in luogo accessibile a tutti”, l’onere posto a carico del datore non si può ritenere rispettato da una comunicazione individuale, seppur indirizzata a tutti i dipendenti, con un contenuto analogo a quello che sarebbe stato affisso;
  • l’affissione può essere attuata in qualunque locale dell’impresa all’interno del quale ogni dipendente possa accedere liberamente, senza dover essere a ciò espressamente autorizzato; e così, per esempio, sono idonei: gli spogliatoi, la mensa, il locale nel quale si timbra o firma la presenza o l’uscita, e così via;
  • se l’impresa è strutturata su diverse unità produttive, l’obbligo di preventiva affissione del codice riguarda ognuna di tali distinte unità produttive;
  • se il codice viene rimosso (per esempio da un dipendente) va subito sostituito con un’altra copia, eventualmente proteggendolo con una (robusta) bacheca in plexiglass munita di serratura.

Va poi evidenziato che tale codice non potrà prevedere ogni possibile violazione ma dovrà comunque essere sufficientemente specifico e completo, così da dar conto – almeno in linea di massima – di tutte le condotte che potrebbero essere ritenute passibili di reazione da parte del datore di lavoro. Va evidenziato come tale adempimento, peraltro assai semplice, sia spesso omesso da parte delle imprese, con conseguenti problemi procedurali in sede di applicazione delle sanzioni disciplinari.

Mancata affissione del codice disciplinare

L’omessa (ancorché poco giustificabile, come precisato sopra) preventiva affissione del codice disciplinare non si “ritorce” contro il datore di lavoro vittima di un comportamento scorretto del dipendente quando:

  • vengano in evidenza gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro;
  • ci si trovi in presenza di un comportamento contrario al minimo etico (ciò, a maggior ragione, si verifica nei casi in cui la condotta tenuta dal dipendente è espressamente sanzionata dal codice penale).

Tuttavia, è chiaro che questa sarà la prima obiezione mossa dal dipendente allorché presenta le proprie difese; è quindi assolutamente consigliabile, per smontare in partenza qualsivoglia obiezione al riguardo, affiggere sempre il codice disciplinare in un locale aziendale all’interno del quale l’accesso sia libero.

Contestazione degli addebiti

A prescindere dal fatto che il dipendente sia stato colto sul fatto (in flagranza, per così dire) o che l’inadempimento ai propri doveri sia stato accertato in seguito (per esempio, una volta concluso l’inventario del magazzino, scoprendo un presunto furto di merce), il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa.

Tale regola deve sempre essere osservata, anche in presenza delle condotte più gravi e riprovevoli.

In ogni caso, è espressamente previsto che i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possano essere applicati prima che siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione “per iscritto” del fatto che vi ha dato causa.

Ad avviso della giurisprudenza, l’obbligo di formulare l’addebito disciplinare in maniera chiara e precisa – a garanzia del diritto di difesa del lavoratore nel procedimento di applicazione della relativa sanzione – si intende rispettato ogniqualvolta l’atto con cui il datore di lavoro comunica al dipendente il risultato delle proprie indagini, in merito a presunte violazioni di obblighi gravanti su quest’ultimo da cui possa derivare l’applicazione di tali sanzioni, contenga un’enunciazione sufficientemente dettagliata del fatto, con i relativi riferimenti temporanei (ossia: quando è stato commesso il fatto) e spaziali (ossia: dove è stato commesso il fatto), che consenta al destinatario di porre in essere eventuali ricerche di fonti di prova a propria discolpa, indipendentemente dalla specifica indicazione o meno delle disposizioni del codice disciplinare ritenute violate.

Presentazione delle difese da parte del dipendente

Una volta ricevuta la lettera di contestazione scritta contenente l’addebito disciplinare (che deve essere tempestiva e dettagliata), il lavoratore ha a propria disposizione 5 giorni (di calendario, domeniche e festivi inclusi, salvo che il contratto collettivo non preveda un termine più ampio) per presentare le proprie giustificazioni.

A tal fine – premesso che il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato (o anche da un avvocato ma, in quest’ultimo caso, solo se il datore di lavoro è d’accordo) – sono possibili tre diverse situazioni, nel cui ambito il lavoratore:

  • non reagisce in alcun modo alla lettera di contestazione giunta nelle sue mani;
  • si discolpa in forma orale, riservandosi o meno di produrre anche delle giustificazioni scritte;
  • produce un documento cartaceo, chiedendo o meno di essere anche sentito di persona.

In relazione alla prima ipotesi, a fronte dell’inerzia del lavoratore, il datore non ha alcun obbligo di convocare il dipendente perché si discolpi: ne consegue che, dopo 5 giorni (o dopo il maggior termine previsto dal contratto collettivo), egli sarà libero di procedere all’applicazione della sanzione disciplinare ritenuta congrua.

Al contrario, qualora il lavoratore incolpato chieda di essere sentito di persona (con o senza l’assistenza di un sindacalista di sua fiducia), il datore di lavoro è obbligato a convocarlo per udirne le difese.

Altrettanto a dirsi nel caso in cui il dipendente abbia già prodotto un documento scritto a propria discolpa e chieda, comunque, di essere ascoltato in presenza.

Tale dovere di audizione può essere espletato nei locali aziendali, durante l’orario di lavoro oppure anche al termine del servizio, a discrezione del datore di lavoro. L’incontro, una volta che la data sia stata fissata, può essere differito solo se il dipendente dimostra che vi è un’esigenza difensiva non altrimenti tutelabile (Cass. 31 marzo 2011, n. 7493).

Sanzioni disciplinari: tipologie

Premesso che non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro (è il caso del trasferimento cd. “disciplinare”, che però potrebbe essere invece disposto per ragioni di “incompatibilità ambientale), e che il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo ha natura disciplinare e, come tale, è certamente possibile nei casi più gravi, le sanzioni applicabili – nell’ipotesi in cui il datore abbia deciso di procedere in quanto non ritiene fondate le giustificazioni che sono state fornite dal dipendente – sono tipizzate direttamente dalla norma, ossia dall’articolo 7, co. 4, della legge 20 maggio 1970, n. 300; al riguardo si veda la tabella che segue.

QUESTE LE SANZIONI APPLICABILI
SanzioneMisuraContestazione
Rimprovero verbaleNessuna particolaritàA voce
Rimprovero scrittoNessuna particolaritàPer iscritto, rispettando i 5 giorni dalla contestazione, onde consentire al dipendente di difendersi
MultaMassimo 4 ore della retribuzione basePer iscritto, rispettando i 5 giorni dalla contestazione, onde consentire al dipendente di difendersi
Sospensione da servizio e retribuzione (1)Massimo 10 giorniPer iscritto, rispettando i 5 giorni dalla contestazione, onde consentire al dipendente di difendersi
Licenziamento per giustificato motivo soggettivoNel rispetto del periodo di preavviso o pagando l’apposita indennitàPer iscritto, rispettando i 5 giorni dalla contestazione, onde consentire al dipendente di difendersi
Licenziamento per giusta causaConcluso il procedimento, senza indennità di preavvisoPer iscritto, rispettando i 5 giorni dalla contestazione, onde consentire al dipendente di difendersi
(1) Da non confondersi con la cd. sospensione cautelare (con o senza retribuzione) che non ha natura di provvedimento disciplinare ma è volta unicamente a consentire l’accertamento dei fatti.

Tentativo di conciliazione e arbitrato

L’articolo 18, co. 6 e 7, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dispone che – salvo analoghe procedure che siano previste dai contratti collettivi di lavoro, e ferma restando (in ogni caso) la facoltà di rivolgersi al giudice – il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei 20 giorni successivi, anche per mezzo dell’associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, di un collegio di conciliazione e arbitrato, composto:

  • da un rappresentante di ciascuna delle parti; e
  • da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro.

Se il dipendente sceglie questa strada, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio.

Invece, vista dall’altro lato del tavolo, il datore di lavoro, se:

  • non provvede, entro 10 giorni dall’invito rivoltogli dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al comma precedente: la sanzione disciplinare non ha effetto;
  • adisce il giudice: la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio.

Recidiva del dipendente

Non pochi contratti collettivi graduano la misura disciplina applicabile (inasprendola) in relazione al fatto che quel dipendente sia stato soggetto (nel recente passato) alla frequente applicazione di sanzioni disciplinari.

A tale riguardo – posto che l’articolo 7, co. 8, della legge n. 300/1970, dispone che non può tenersi conto, ad alcun effetto, delle sanzioni disciplinari decorsi 2 anni dalla loro applicazione – merita di essere evidenziato che la recidiva può essere:

  • specifica: in quanto consistente nella reiterazione della medesima condotta vietata (per esempio più episodi di avvenuta presentazione al lavoro in ritardo o senza le attrezzature per la salute e sicurezza); oppure
  • generica: una volta il dipendente si presenta in ritardo, una volta non ha il casco di protezione, un’altra fuma sul posto di lavoro, eccetera.

Licenziamento disciplinare

Almeno un cenno merita il licenziamento (nel caso in esame: per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa), che è la massima – definitiva e risolutoria – sanzione disciplinare.

Senza entrare nel merito delle differenti tutele applicabili a seconda che si tratti di un dipendente “nuovo” o “vecchio”, e di un datore “piccolo” oppure “grande”, è assai utile richiamare l’attenzione sul fatto che – per i dipendenti ai quali si applica l’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e quindi quelli assunti entro il 6 marzo 2015 che lavorano presso un datore che ha più di 15 dipendenti nel comune o nell’unità produttiva o che ne ha più di 60 in tutto – nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro:

  • per insussistenza del fatto contestato; ovvero
  • perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili;

il giudice annulla il licenziamento e ordina sia la reintegrazione del lavoratore che il suo diritto a essere risarcito per il danno patito conseguente all’illegittimo licenziamento.

Ove, invece, si tratti di un datore “grande e di un dipendente “nuovo assunto”, la reintegrazione (più il risarcimento del danno) sono previsti unicamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.

Attenzione, quindi, a non eccedere, applicando, per una violazione “poco” grave, un licenziamento che poi sarebbe verosimilmente annullato da parte del giudice.

Infine, se invece il datore è “piccolo”, sia che si tratti di un dipendente “nuovo” o “vecchio”, in caso di licenziamento disciplinare illegittimo, la tutela a favore del lavoratore è esclusivamente di tipo indennitario, con la precisazione che, se si tratta di un dipendente “vecchio”, il datore potrebbe evitare di risarcire il danno procedendo – entro 3 giorni – alla riassunzione del lavoratore.

Tipizzazione di giusta causa e di giustificato motivo

L’articolo 30, co. 3, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (si tratta di una norma assai poco conosciuta ma che è interessante ricordare trattando l’argomento che ci occupa), dispone che – nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento – il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti:

  • nei contratti collettivi di lavoro – nazionali, territoriali e/o aziendali – stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi; ovvero
  • nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni.

Ai sensi della stessa norma, nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (ossia l’eventuale reintegrazione o riassunzione nonché l’importo del risarcimento da riconoscere al dipendente in caso di licenziamento illegittimo), il giudice tiene egualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti e comunque considera:

  • le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro;
  • la situazione del mercato del lavoro locale;
  • l’anzianità e le condizioni del lavoratore; nonché
  • il comportamento delle parti anche prima del licenziamento.

Decorrenza del licenziamento all’esito del procedimento disciplinare

Da ultimo, per completezza, segnaliamo che un’altra norma poco conosciuta è quella contenuta nell’articolo 1, co. 41, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Riforma Fornero). Ivi si dispone che il licenziamento intimato all’esito del procedimento disciplinare di cui all’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300:

  • produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato, salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva (possibile, per quanto qui interessa, nel solo caso del licenziamento per giustificato motivo soggettivo); e
  • il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura (di contestazione ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 300/1970) si considera come preavviso lavorato.
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