Lavoro e HR

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo 2024: nozione, campo di applicazione, obbligo di repêchage

Spesso si tende a collegare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo solo ai cosiddetti “motivi economici”; in realtà, il campo di applicazione dell’istituto è molto più esteso. Ecco perché è bene definirne l’ambito, analizzando con particolare attenzione, oltre che le diverse disposizioni “emergenziali” emanate durante la pandemia da Coronavirus, anche l’obbligo di repêchage a carico del datore di lavoro, pena la possibile illegittimità del recesso.

Che cosa si intende per “licenziamento per giustificato motivo oggettivo”

La definizione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, di per sé molto ampia e “generica”, è contenuta nell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604. Tale norma, mai modificata negli anni, dispone che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo – beninteso, da un rapporto a tempo indeterminato e sempre con il dovuto preavviso – è determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (inclusa la sopravvenuta inidoneità fisica del dipendente: INL, Nota 24 giugno 2020, prot. n. 298; Trib. Ravenna 7 gennaio 2021). L’onere di dimostrare la sopravvenuta inidoneità a rendere la prestazione da parte del dipendente ricade in toto sul datore: in difetto di tale prova, il licenziamento è illegittimo (Cass. ord. 12 aprile 2024 n. 9937).

Ad avviso della più recente giurisprudenza – a differenza dei talvolta (a torto) invocati cd. “motivi economici” (dei quali non si rinviene traccia nella normativa vigente) – il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legato alle “cause” espressamente indicate dalla norma, e quindi esso è abitualmente ritenuto sussistente in presenza di una riorganizzazione dell’attività del datore di lavoro che sia volta a migliorarne l’efficienza nell’ambito del mercato di interesse. Da tale riorganizzazione – che deve essere compiutamente dimostrata da parte del datore che recede – deve conseguire l’esternalizzazione di una determinata attività svolta sino a quel momento, la sua riduzione o anche la totale eliminazione, con conseguente esigenza di sopprimere un singolo posto o un intero reparto.

Esempi Il datore di lavoro che, sino a quel momento, aveva prima effettivamente prodotto e poi anche commercializzato un determinato bene di consumo, potrebbe decidere che per lui è più conveniente acquistare tale bene da un altro produttore e limitarsi, dal proprio canto, alla sola commercializzazione. Altro esempio potrebbe riguardare l’unificazione delle funzioni “commerciale” e “marketing”, prima assegnate a due diverse persone, con conseguente esubero di una di esse.

La previsione di cui all’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, deve poi essere “letta”, e quindi, applicata alla luce del principio contenuto nell’articolo 41 della Costituzione, il quale stabilisce che l’iniziativa economica privata è libera, dal che ne discende la conseguente facoltà del datore di lavoro di organizzare la propria impresa come meglio ritiene opportuno.

Ne deriva, quindi, che un licenziamento per giustificato motivo oggettivo – se il datore dimostra l’effettività della riorganizzazione della propria impresa – è legittimo a prescindere dal fatto che i conti dell’impresa siano “in ordine” o meno, e quindi anche se vi sono evidenti utili di bilancio. Diversamente, ove il recesso fosse possibile solo per “motivi economici”, il datore in utile non potrebbe recedere dal contratto.

Corte di Cassazione – Sentenza 27 dicembre 2021, n. 41586
Particolarmente “illuminante” quanto affermato nella motivazione di questa recentissima sentenza della Suprema Corte, secondo la quale, ai fini dell’accertamento della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, occorre che, ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, siano ravvisabili cumulativamente tre requisiti:
a) la soppressione del settore lavorativo, del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza a lui attribuite;
b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali – insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati – diretti a incidere sulla struttura e sulla organizzazione dell’impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati a una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività;
c) l’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, sebbene privo di espressa previsione normativa, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere in alcun modo condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore.
L’onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili.

Quindi, in buona sostanza, ad avviso del più recente orientamento della Suprema Corte, per la legittimità del recesso, è sufficiente che le ragioni (addotte dal datore) inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale o a un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa (Cass. 10 maggio 2022, n. 14840). Da ultimo va evidenziato che non rientra nella nozione di giustificato motivo oggettivo il licenziamento intimato in relazione al superamento (o anche di mancato superamento) del periodo di comporto di cui all’art. 2110, co. 2, cod. civ. (Cass. S.U. 22 maggio 2018, n. 12568).

In ogni caso, come dispone l’articolo 26, co. 1, del decreto legislativo 28 febbraio 2021, n. 36, ai contratti di lavoro subordinato sportivo non si applicano le norme contenute negli articoli 4, 5, e 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300; negli articoli 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604; negli articoli 2, 4 e 5 della legge 11 maggio 1990, n. 108; nell’articolo 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223; nel decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23; e nell’articolo 2103 del codice civile.

Licenziamento per GMO: requisiti sostanziali di legittimità

Il datore di lavoro il quale, vistosi citato in giudizio da parte del dipendente che è stato licenziato, non desideri perdere la causa, deve dimostrare al giudice quanto segue:

  1. l’effettività (ossia la veridicità) della ragione addotta a fondamento del licenziamento;
  2. che è stato licenziato il lavoratore che, sino a quel momento, svolgeva le attività che sono state soppresse o esternalizzate: si tratta del cd. “nesso di causalità”;
  3. che ha assolto all’onere di repêchage.

Va infatti ricordato che, come dispone l’articolo 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604, l’onere della prova della sussistenza (della giusta causa o) del giustificato motivo di licenziamento spetta sempre al datore di lavoro.

L’obbligo di repêchage nel licenziamento per GMO

Come anticipato appena sopra, il terzo requisito si fonda sul fatto che, prima di licenziare, il datore di lavoro deve analizzare la situazione della propria impresa, cercando di capire se non esistano mansioni “scoperte” da affidare al dipendente che è potenziale destinatario del recesso. L’obiettivo di tale analisi è proprio quello di scongiurare la perdita del posto di lavoro, ciò che costituisce il bene supremo di ogni lavoratore subordinato.

Va da sé che la ricerca di posizioni alternative deve essere condotta secondo correttezza e buona fede, escludendo però le mansioni che non esistono o quelle che il dipendente non è assolutamente in grado di svolgere: basti pensare all’esistenza di possibili posti alternativi che richiedano particolari abilitazioni o competenze (es. il porto d’armi, una particolare patente di guida, l’ottima conoscenza della lingua russa, e così via).

In questo senso, da ultimo, Cass. ord. 19 aprile 2024, n. 10627, che ha escluso la violazione dell’obbligo in esame nel caso del licenziamento di un operaio del reparto calzature a fronte della nuova assunzione (per soli 12 mesi) di una impiegata con mansioni di “addetta al web”.

La legittimità del licenziamento per soppressione del posto richiede che l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore sia verificata anche con riguardo alle mansioni superiori di fatto assegnate e da lui svolte (Cass. ord. 20 ottobre 2022, n. 30950), ovvero a quelle inferiori che sia in grado di svolgere, anche con un contratto a tempo determinato (Cass. ord. 10 luglio 2024, n. 18904).

Resta tutta da valutare, in base alla giurisprudenza che si formerà in futuro in materia, la questione dell’eventuale licenziamento intimato da parte di un co-datore nell’ambito di un contratto di rete, con assai verosimile obbligo di repêchage in capo agli altri co-datori che siano anch’essi parti del contratto di rete: per un cenno generale rispetto a tale argomento si vedano le indicazioni contenute nel D.M. 29 ottobre 2021, n. 205; e la Nota INL 22 febbraio 2022, n. 315.

A prescindere da quanto previsto dall’articolo 8, co. 1, del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 – a mente del quale il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto da tempo pieno a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento – è legittimo il licenziamento del dipendente che – a fronte di effettive esigenze economiche e organizzative tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo pieno, ma solo con l’orario ridotto – rifiuti di acconsentire alla riduzione del proprio orario di lavoro (Cass. ord. 9 maggio 2023, n. 12244).

Articolo 2013, co. 6, del codice civile: demansionamento e retribuzione

Proprio con riguardo all’obbligo di repêchage, è bene evidenziare una norma ancora troppo poco conosciuta. Infatti, l’articolo 2103 del codice civile, come modificato nel 2015 dal cd. Jobs Act, dopo aver disciplinato le ipotesi di demansionamento “semplice” (ossia quelle di assegnazione del dipendente a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, ma senza alcuna decurtazione della retribuzione), stabilisce che:

  • nelle sedi di cui all’articolo 2113, co. 4, del codice civile (e, quindi, in sede sindacale ovvero presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro); o
  • avanti alle commissioni di certificazione;

possono essere stipulati accordi individuali di modifica:

  • delle mansioni;
  • della categoria legale e del livello di inquadramento;
  • della relativa retribuzione;

nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione (e, quindi, a non essere licenziato), all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Nel corso di tale procedura, visti i rilevanti interessi in gioco, il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Conseguenze della violazione del repêchage nel licenziamento per GMO

Tradizionalmente, la giurisprudenza ha sanzionato la violazione dell’obbligo di repêchage da parte del datore di lavoro con l’indennità (differenziata nelle varie misure a seconda che si tratti di datore di maggiori o di minori dimensioni, ovvero di un dipendente a tutele crescenti oppure no) prevista in relazione alle diverse ipotesi di licenziamento illegittimo. Così, per esempio, ove si tratti di un dipendente non a tutele crescenti, assunto da un datore di lavoro “oltre i 15 dipendenti”, il risarcimento del danno oscilla tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Va però evidenziato che, secondo altre e recenti sentenze della Cassazione (da ultimo Cass. 11 novembre 2022, n. 33341), la violazione dell’obbligo di repêchage comporta che il licenziamento sia soggetto alla medesima disciplina prevista per il caso in cui il giudice accerta l’insussistenza del fatto posto a base del recesso per giustificato motivo oggettivo. Ebbene, in questa ipotesi, viene disposta la reintegrazione del dipendente, oltre al risarcimento del danno che, nell’ipotesi di cui sopra, può arrivare a 12 mensilità di retribuzione. In sostanza, per concludere sul punto, il datore che voglia recedere deve prestare molta attenzione al rispetto dell’obbligo di repêchage. Tale tutela rafforzata, che contempla tanto il risarcimento del danno quanto la reintegrazione nel posto di lavoro, è stata recentemente riaffermata dalla Corte di Cassazione con la sentenza 18 novembre 2022, n. 34049, che ha preso le mosse dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 59/201. Ad avviso della Corte Costituzionale (sentenza 16 luglio 2024, n. 128), la violazione del cd. obbligo di repêchage non comporta la reintegrazione del dipendente, in quanto essa non rientra nella nozione di insussistenza del fatto materiale.

Rapporti tra licenziamento per giustificato motivo oggettivo e malattia

Ad avviso della giurisprudenza, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo:

  • ove intimato durante un’assenza per malattia del lavoratore, è solamente inefficace fino alla cessazione di tale stato di malattia (Cass. 10 settembre 2021, n. 24510);
  • è legittimo ed efficace se, dopo che è stato intimato, il lavoratore presenta un certificato di malattia (Cass. 10 ottobre 2013, n. 23063).

Divieto di licenziamento ex art. 1, co. 233, legge n. 234/2021

Un’ipotesi particolare di divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è quella contenuta nell’articolo 1, co. 233, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (legge di Bilancio 2022). Tale norma, nei co. da 224 a 236, al fine di garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo, dispone che il datore di lavoro il quale, nell’anno precedente, abbia occupato con contratto di lavoro subordinato, inclusi gli apprendisti e i dirigenti, mediamente almeno 250 dipendenti, e che intenda procedere alla chiusura di una sede, di uno stabilimento, di una filiale, o di un ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale, con cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50, è tenuto a dare comunicazione per iscritto dell’intenzione di procedere alla chiusura alle rappresentanze sindacali aziendali o alla rappresentanza sindacale unitaria nonché alle sedi territoriali delle associazioni sindacali di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e, contestualmente, alle regioni interessate, al Ministero del lavoro, al Ministero dello sviluppo economico e all’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL). A seguito di tale comunicazione, il datore è tenuto a presentare un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche e a discuterlo con le controparti e gli enti.

Ebbene, ai sensi del citato co. 233, prima della conclusione dell’esame del piano e della sua eventuale sottoscrizione il datore di lavoro non può avviare la procedura di licenziamento collettivo di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223, né intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Del pari, ex co. 227, sono nulli i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e collettivi intimati in mancanza della comunicazione o prima dello scadere del termine di 90 giorni previsto per tale comunicazione prima dell’avvio della procedura di cui all’articolo 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223.

Altri approfondimenti sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo

FAQ correlate

Link iscrizione multi rubrica