Il valore probatorio dei messaggi Whatsapp e Telegram
I messaggi scambiati tramite Whatsapp o Telegram, al pari delle email, possono costituire una prova in ambito giuridico? In una contestazione tra commercialista e cliente, possono quindi essere prodotti in giudizio? Le tecniche di "digital forensics" sono in grado di raccogliere, acquisire e conservare le prove digitali contenute negli smartphone.
Tutti noi utilizziamo da anni gli strumenti di messaggistica istantanea, quale per esempio Whatsapp, Telegram, Signal, Messenger, Viber, Wire, Riot, iMessage, e alcuni sono di proprietà delle big tech (Whatsapp è di Facebook, iMessage di Apple) mentre altri di fondazioni (Signal è della Freedom of the Press Foundation), in alcuni i canali di trasmissione sono cifrati (Whatsapp, Signal, Viber) mentre in altri no (Telegram), in alcuni è presente un sistema di autodistruzione del messaggio (Signal e Telegram) mentre in altri no (Whatsapp e Viber).
Il loro utilizzo si è notevolmente diffuso anche nell’ambito dell’attività professionale svolta dai commercialisti, e in non pochi studi tali strumenti sono preferiti alle tradizionali email in quanto sono molto semplici nell’utilizzo, sono fruibili anche in mobilità purché si abbia a disposizione uno smartphone, sono in grado di raggiungere il cliente ovunque si trovi e in qualsiasi momento.
In tale contesto, è utile capire qual è il valore probatorio dei messaggi scambiati tramite Whatsapp oppure Telegram, dato che potrebbero sorgere contestazioni con la clientela, oppure potrebbero essere gli stessi clienti a chiederci supporto in tale contesto, oppure, aimè, venire a conoscenza di messaggi diffamatori ai danni dello studio. Un caso potrebbe essere per esempio la situazione ove il commercialista trasmette al cliente via Whatsapp un messaggio in cui lo avvisa della prossima scadenza IVA, comunicandogli l’importo da versare, il codice del tributo e la data entro cui eseguire il versamento, oppure il caso in cui il cliente inoltra allo studio diverse fatture di acquisto ricevute via email da fornitori intra-UE al fine di provvedere alla loro registrazione in contabilità oltre che alla predisposizione e inoltro dell’esterometro.
Premesso che i suddetti messaggi, al pari dei messaggi SMS, sono dei documenti informatici, dato che contengono “la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti” (art.1, lettera p) del D. Lgs 7 marzo 2005 n.82, d’ora in poi CAD), va aggiunto altresì che a norma dell’art. 46 del Regolamento n.910/2014 (Regolamento eIDAS), “A un documento elettronico non sono negati gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della sua forma elettronica”. In tema di valore probatorio, a norma dell’art.20 del CAD, i documenti informatici non firmati oppure firmati con una firma elettronica semplice (cioè una firma elettronica diversa dall’avanzata, dalla qualificata, dalla identificata e dalla digitale), “sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità”, e assumendo l’efficacia ex art.2712 del Codice civile, in tema di riproduzioni meccaniche. In sostanza quindi, i messaggi scambiati via Whatsapp o Telegram “formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime” (art.2712 del Codice civile).
La stessa Corte di Cassazione, oltre ad aver stabilito che i messaggi di posta elettronica, seppure privi di firma, rientrano tra le riproduzioni informatiche ovvero le rappresentazioni meccaniche ex art. 2712 del Codice civile (Cassazione, ordinanza n.11606 del 14 maggio 2018), è venuta alla medesima conclusione anche per i messaggi SMS (ordinanza n.5141 del 21 febbraio 2019 e ordinanza n.19155 del 17 luglio 2019), rilevando testualmente che lo “short message service (“SMS”) contiene la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti ed è riconducibile nell’ambito dell’art. 2712 c.c., con la conseguenza che forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne contesti la conformità ai fatti o alle cose medesime.”
Tornando al nostro esempio, se la parte contro la quale viene prodotto il messaggio contesta la conformità dei fatti in esso rappresentati disconoscendo nella sostanza la riproduzione meccanica informatica, sarà onere della controparte dimostrare la reale validità e integrità del messaggio scambiato via Whatsapp. Il disconoscimento, idoneo a fare perdere al messaggio la qualità di prova, deve però essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegare validi elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà e fatti rappresentati nei messaggi informatici.
Altro aspetto da considerare, è che la prova da produrre in giudizio per dimostrare la reale validità del messaggio non dovrà di certo essere la trascrizione su fogli Word o le stampe degli screenshot dei messaggi (Tribunale di Milano, sentenze del 6 giugno e del 24 ottobre 2017), oltre al fatto che la piattaforma tecnologica di Whatsapp non conserva i messaggi una volta consegnati, e infatti nell’area sicurezza e privacy viene testualmente riportato che “Durante la normale erogazione dei propri servizi, WhatsApp non conserva i messaggi una volta che sono stati consegnati, né conserva i file di log delle transazioni di tali messaggi consegnati. I messaggi non consegnati vengono eliminati dai server dopo 30 giorni.”
La prova digitale da produrre in giudizio, che possiamo definirla come “any information of probative value that is stored or transmitted in a binary form” (SWGDE, 1999) e che può essere impiegata sia in ambito civile che penale, deve quindi essere prodotta impiegando tecniche di digital forensics e specifici tool in grado di individuare, raccogliere, acquisire e conservare le prove digitali contenute negli smartphone, secondo riconosciute best practice e metodologie conformi a standard internazionali, quali per esempio ISO/IEC 27037-12, RFC 3227, oppure la Evidence Electronic Guide della Data Protection and Cybercrime Division.
La fase di produzione della prova digitale, che secondo la Cassazione è condizionata all’acquisizione del supporto contenente i messaggi dato che “occorre controllare l’affidabilità della prova medesima mediante l’esame diretto del supporto onde verificare con certezza sia la paternità delle registrazioni sia l’attendibilità di quanto da esse documentato” (Cassazione, sentenza n.49016 del 2017), nella pratica si svolge producendo una copia forense bit-to-bit di quanto contenuto nello smartphone. Nei casi di messaggi scambiati via Whatsapp, e questo vale sia nei procedimenti giudiziari civili che penali, la prova digitale va quindi acquisita direttamente dallo smartphone, creando una copia forense della chat, ed impiegando particolari tool oltre che specifiche metodologie di digital forensics, dato che diversamente la prova digitale è nella sostanza inutilizzabile.
La digital forensics, disciplina che consiste in un insieme di tecniche e metodologie investigative utili ad acquisire, analizzare e interpretare le tracce digitali rinvenute nei computer o in altri dispositivi elettronici, si è sviluppata nel nostro Paese soprattutto a seguito della ratifica della Convenzione di Budapest del 2011 in tema di cybercrime, avvenuta con la pubblicazione della legge 18 marzo 2018 n.48 che è intervenuta a introdurre nel nostro codice penale diversi reati utili a contrastare la criminalità informatica.
Sempre più diffuso è poi l’impiego della digital forensics anche in ambito aziendale e fiscale, se pensiamo ai casi di cyber-riciclaggio, alle frodi fiscali, ai reati di insider trading, ai fallimenti con cancellazione dell’intera contabilità, agli spionaggi industriali tramite attacchi hacker, alla divulgazione di informazioni strategiche da parte di dipendenti infedeli, etc.