Lavoro e HR

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Licenziamento: ultimi orientamenti della giurisprudenza

Le norme che disciplinano le conseguenze del licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice, con particolare riferimento ai lavoratori soggetti alle “tutele crescenti” (ex D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23), sono state profondamente modificate:

  1. dal cd. decreto dignità, che ha alzato il risarcimento da 4/24 a 6/36 mensilità e l’offerta di conciliazione da 2/18 a 3/27 mensilità per i datori di maggiori dimensioni (la metà, con un massimo di 6 mensilità, per le PMI); nonché
  2. dalla Corte Costituzionale che, con sentenza 8 novembre 2018, n. 194, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, del D.Lgs. n. 23/2015 – sia nel testo originario che in quello modificato dal D.L. 12 luglio 2018, n. 87 (legge n. 96/2018) – limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

Quindi, oggi, per un lavoratore soggetto alle tutele crescenti, illegittimamente licenziato e a cui non spetti la reintegra (perché non si tratta di un licenziamento orale, nullo ecc.), spetta un risarcimento che va da 6 a 36 mensilità (la metà, con un massimo di 6, per le PMI).
Chiarito il quadro generale, segnaliamo di seguito alcune tra le più recenti e interessanti sentenze, senza limitarci ai soli lavoratori soggetti alle tutele crescenti.
Licenziamento disciplinare: svolgimento di altra attività in malattia. Purtroppo per il datore, contrariamente a quello che taluni ritengono, non sempre il fatto che il dipendente, assente per un episodio di malattia, svolga un’altra attività, costituisce giusta causa. Certo, molte volte è così, potendosi presumere che l’assenza sia pretestuosa e che l’altra attività impedisca, o anche solo ritardi, l’effettivo rientro in servizio.
Tuttavia, non mancano alcune eccezioni: è il caso di una recente sentenza della Cassazione secondo cui il fatto che il dipendente svolga un’altra attività durante l’assenza per malattia, di per sé, non integra la giusta causa di licenziamento; infatti, è compito del giudice valutare la condotta posta in essere e la sua rilevanza ai fini del diritto.
Nel caso di specie, il dipendente era stato scoperto, nella sera dell’ultimo giorno di malattia (dalle 20 alle 22), mentre preparava delle pizze in un locale e, quindi, era stato licenziato. La Cassazione, però, confermando le decisioni di merito, ha affermato che l’attività di pizzaiolo era stata svolta la sera l’ultimo giorno di assenza, era compatibile con la malattia denunciata e il dipendente si era regolarmente presentato al lavoro il giorno dopo. Ne è conseguita la reintegrazione nel posto di lavoro (Cass., ordinanza 7 febbraio 2019, n. 3655).
Licenziamento disciplinare: cassiera che si appropria di buoni sconto. La giusta causa di licenziamento, che consiste nella commissione di un fatto che mina radicalmente la fiducia del datore nel corretto adempimento futuro della prestazione, ed è talmente grave da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, può essere riconosciuta a prescindere dall’entità del danno materiale subito da parte del datore.
In questo senso si è recentemente espressa la Suprema Corte che, confermando la sentenza della Corte d’Appello, ha dichiarato pienamente legittimo il licenziamento della cassiera che non aveva consegnato ai clienti (che ne avevano diritto, in quanto titolari di una tessera promozionale) alcuni “buoni sconto” del 10% sulla spesa futura. Nel caso di specie, il controvalore di tali buoni era pari, in tutto, a 24 euro, essi sono stati “utilizzati” dal marito della lavoratrice il giorno dopo presso lo stesso punto vendita (Cass. 23 aprile 2019, n. 11181).
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: manifesta insussistenza del fatto. L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori prevede la reintegrazione più un risarcimento del danno con un importo fino a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto – per i soli datori di maggiori dimensioni – solo nei casi in cui il giudice accerti la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. La decisione che segnaliamo è intervenuta su una fattispecie abbastanza particolare: il datore, in vista della chiusura di un reparto aziendale, la cui attività sarebbe stata, entro poco tempo, “esternalizzata”, vi aveva collocato alcuni dipendenti, in soprannumero rispetto al “normale” numero di addetti a quello specifico reparto. A distanza di breve tempo si era quindi verificata l’esternalizzazione, con conseguente licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei lavoratori addetti a tale reparto. A seguito dell’impugnazione da parte di una dipendente, la Suprema Corte ha ravvisato una condotta arbitraria da parte del datore, finalizzata a collocare illegittimamente nel reparto da chiudere alcuni lavoratori, solo in vista del loro prossimo licenziamento. Il fatto a base del recesso è stato quindi dichiarato “manifestamente insussistente”, perché l’esubero era stato artificiosamente “preordinato”, con conseguente diritto della lavoratrice alla reintegrazione (Cass. 13 marzo 2019, n. 7167).
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: gravidanza.
La vicenda è la seguente:

  1. il datore, il 2 aprile 2004, comunica a una lavoratrice il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (la comunicazione viene ricevuta il giorno stesso);
  2. il licenziamento sarà operativo alla fine del preavviso, ossia dal 15 maggio 2014;
  3. durante il preavviso, la dipendente attesta di essere in gravidanza e, applicando la presunzione legale ex 4 del DPR n. 1026/1976, riferita a 300 giorni prima della data presunta del parto, afferma che la data del concepimento va individuata nel giorno 28 marzo 2004, e quindi prima del licenziamento;
  4. ella chiede quindi la nullità del licenziamento e la reintegrazione.

Per la Cassazione, la comunicazione di licenziamento è valida a partire dal momento in cui essa viene ricevuta dal lavoratore, anche se la sua efficacia (e quindi la risoluzione del rapporto) è differita a un momento successivo. Quanto poi alla previsione legale per cui la gravidanza si ritiene iniziata 300 giorni prima della data presunta del parto, si tratta di una presunzione relativa, superabile ove esista una prova contraria: in questo caso è stata data fede alla documentazione medica prodotta in giudizio.
Infine, mentre il licenziamento durante la gravidanza è consentito nelle poche ipotesi previste ex art. 54 del D.Lgs. n. 151/2001, invece la gravidanza che inizi durante il periodo di preavviso ha come effetto quello di sospenderne il decorso: ne deriva che il recesso non è radicalmente nullo ma solo che la sua efficacia è solo sospesa (Cass. ord. 3 aprile 2019, n. 9268).
 
 
 
A cura di Alberto Bosco – Esperto di diritto del lavoro, Giuslavorista, Pubblicista de Il Sole24Ore. Consulente aziendale e formatore

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