Le attestazioni di conformità nel PTT e responsabilità del difensore
In un precedente intervento ci siamo occupati del potere di certificazione di conformità degli atti nell’ambito del processo tributario telematico: segnatamente, l’articolo 25-bis del D. Lgs. n. 546/1992 sancisce che, al fine del deposito e della notifica con modalità telematiche della copia informatica, anche per immagine, di un atto processuale di parte, di un provvedimento del giudice o di un documento formato su supporto analogico e detenuto in copia originale o conforme, il difensore può attestare la conformità della copia al predetto atto in ossequio alle modalità previste dal D. Lgs. n. 82/2005 (il Codice dell’Amministrazione Digitale).
In ragione di ciò, la copia informatica o cartacea munita dell’attestazione di conformità equivale all’originale o alla copia conforme dell’atto o del provvedimento detenuto o, ancora, presente nel fascicolo informatico (atteso il potere di attestazione anche per i casi di “estrazione” dal fascicolo informatico).
La norma, naturalmente, contempla la rigida previsione che nel compimento dell’attestazione di conformità il professionista difensore – nonché gli altri soggetti muniti del medesimo potere, quali il dipendente dell’ente impositore o dell’agente della riscossione – assume ad ogni effetto la veste di “pubblico ufficiale” (cfr. art. 25-bis, comma 5).
L’assunzione di tale veste, seppure limitatamente all’attività processuale in commento, espone fisiologicamente il difensore alle derivanti responsabilità, sia sul versante civile che su quello penale.
Proprio con riferimento a quest’ultimo, va ricordata la pena prevista dall’articolo 479 del codice penale, rubricato “Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici”, il quale dispone come il pubblico ufficiale, che ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell’art. 476[1].
Ovviamente, la qualifica di pubblico ufficiale non genera alcun automatismo quanto alla responsabilità del difensore che dovesse introdurre nel processo tributario, suo malgrado, documenti difformi da quelli reali: in tal senso depone la considerazione che con la sottoscrizione digitale il professionista attesta esclusivamente che il documento prodotto è conforme a quello consegnato dal cliente.
Insomma, per darsi responsabilità dovrebbe essere dimostrata un’attività del difensore preordinata alla falsificazione del documento, al fine di conseguire auspicabilmente vantaggi per il proprio assistito in fase processuale.
Diversamente, ove la documentazione provenisse direttamente dal cliente – come quasi sempre accade – nessuna responsabilità potrebbe essere ascritta al difensore per la sola circostanza di averla sottoscritta digitalmente.
Ma in tal senso il professionista è tutelato dalle previsioni contrattuali tipizzanti la lettera d’incarico, volte ad escludere qualsivoglia responsabilità per documenti provenienti dal cliente che non hanno formato oggetto di alcuna elaborazione o rielaborazione da parte del difensore.
Anche in ragione di quella tutela
che il professionista deve acquisire stante l’ormai radicata previsione
nell’ordinamento tributario della fattispecie del falso in atti contro la
Pubblica Amministrazione già in sede endoprocedimentale, siccome prevista
dall’art. 11 del D. L. n. 201/2011.
[1] A mente del quale il pubblico ufficiale, che, nell’esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, è punito con la reclusione da uno a sei anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni.