Lavoro e HR

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Jobs Act: Al via il contratto a tutele crescenti

Dopo un lungo travaglio, iniziato con la prima versione del testo, presentata nel Consiglio dei Ministri il 24 dicembre 2014, si è conclusa la fase di gestazione del provvedimento sul contratto a tutele crescenti, la cui disciplina è ora contenuta  nel decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, entrato in vigore a partire da sabato 7 marzo 2015.
Va ricordato che la norma è stata prevista dall’art. 1 della legge 10 dicembre 2014, n. 183, che ha delegato il Governo a introdurre, per le nuove assunzioni a tempo indeterminato, il contratto a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio del lavoratore: escludendo per i licenziamenti economici la reintegrazione del lavoratore; prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio; limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato; nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento.
Molti sono i cambiamenti apportati rispetto alla prima versione del testo, il più importante dei quali riguarda certamente il suo ambito di applicazione, ovvero lavoratori e datori interessati. Ebbene, le nuove disposizioni si applicano nei seguenti casi:
a) lavoratori con qualifica di operai, impiegati o quadri (non i dirigenti), assunti con contratto subordinato a tempo indeterminato a decorrere dall’entrata in vigore del decreto legislativo (ossia a partire da sabato 7 marzo 2015);
b) conversione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, dopo l’entrata in vigore del decreto, di contratti a tempo determinato o di apprendistato;
c) tutti i dipendenti, inclusi quindi quelli già in forza prima del nuovo D.Lgs., qualora il datore, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute dopo l’entrata in vigore del D.Lgs., integri il requisito occupazionale di cui all’art. 18, comma 8 e 9, della legge  20 maggio 1970, n. 300, ossia nel caso in cui egli – per esempio, fermo sinora a 15 dipendenti – assuma il 16° lavoratore nell’unità produttiva o nel comune, oppure il 61° dipendente considerando l’organico impiegato in tutto il territorio nazionale.
Ne deriva che, se il licenziamento è illegittimo, si applicheranno, di volta in volta, le norme richiamate nella tabella che segue.
tutele crescenti
Casi in cui si applica la reintegrazione nel posto di lavoro
Come già previsto nello Statuto dei lavoratori, anche per i lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti, sono state previste alcune ipotesi nelle quali il licenziamento è totalmente illegittimo e comporta, in ogni caso, il diritto del dipendente a essere reintegrato nel proprio posto di lavoro e a ottenere, in aggiunta, anche un’indennità economica.
Le ipotesi di licenziamento che – a prescindere dall’organico impiegato da parte del datore di lavoro – ancora oggi comportano l’applicazione della tutela “reale” sono le seguenti:
a) discriminatorio ai sensi dell’articolo 15 della legge n. 300/1970 (adesione al sindacato, svolgimento di attività sindacale o partecipazione a uno sciopero; discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o sesso, di handicap, di età, basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali);
b) nullo perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge (es. lavoratrici madri o lavoratrice che si sposa, nei periodi protetti);
c) inefficace perché intimato solamente in forma orale;
d) basato sulla inidoneità fisica o psichica del lavoratore, senza che siano state attivate le procedure previste dalla legge n. 68/1999.
In questi casi, il giudice ordina al datore la reintegrazione del lavoratore, indipendentemente dal motivo formalmente addotto, e lo condanna anche a pagare un’indennità (commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, dal giorno del recesso sino a quello dell’effettiva reintegrazione), la cui misura minima non può essere inferiore a 5 mensilità, più i contributi previdenziali e assistenziali.
La reintegrazione spetta anche nel caso di recesso disciplinare (ossia intimato per giusta causa e giustificato motivo soggettivo) – ma solo per il datore che ha più di 15 dipendenti – se il lavoratore riesce a dimostrare l’insussistenza del fatto materiale che gli è stato contestato, rispetto alla quale resta del tutto estranea e ininfluente ogni valutazione del giudice sulla sproporzione del licenziamento: la reintegra è accompagnata da un’indennità massima di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, più i contributi.
In tutte le ipotesi che comportano la reintegrazione, fermo il risarcimento del danno economico, il lavoratore può chiedere al datore, in sostituzione della reintegra, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto, e che non e? assoggettata a contribuzione.
Casi in cui  non  si applica  la reintegrazione
Al di fuori delle ipotesi sin qui esaminate, al lavoratore licenziato illegittimamente compete solo il risarcimento del danno. In pratica, se il giudice dichiara che non ricorrono gli estremi del licenziamento: per giustificato motivo oggettivo nonché per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, (al netto di quanto sopra), egli:
1) dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento;
2) e condanna il datore al pagamento di un’indennità (non soggetta a contribuzione) di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.
Tale indennità è dimezzata, e non può superare le 6 mensilità, se si tratta di datore di lavoro di piccole dimensioni, e quindi soggetto solo alla legge n. 604/1966.
No alla procedura in DTL per i nuovi assunti
In caso di recesso per motivo oggettivo nei confronti dei dipendenti assunti a tempo indeterminato; degli apprendisti e dei contratti a termine trasformati a partire dal 7 marzo 2015; nonché di tutti i dipendenti del datore che supera “quota 15” assumendo 1 o più lavoratori nel nuovo regime, non si applica l’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e quindi il datore di lavoro che abbia più di 15 dipendenti non deve più attivare la procedura di conciliazione davanti alla DTL.
Revoca del licenziamento
Infine, è sempre possibile, per il datore, revocare il licenziamento, evitando così di pagare le indennità, entro 15 giorni dalla ricezione della comunicazione della sua impugnazione da parte del lavoratore: in questo caso il rapporto viene ripristinato senza soluzione di continuità e il dipendente ha diritto alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca.
A cura di Alberto Bosco – Esperto di diritto del lavoro, Giuslavorista, Pubblicista de Il Sole24Ore. Consulente aziendale e formatore

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