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La Corte Costituzionale interviene ancora sulle tutele crescenti

Anche il secondo intervento della Corte Costituzionale sulla nuova disciplina del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti vede la (parziale) bocciatura di alcune disposizioni del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, ciò con particolare riguardo ai vizi formali (mancata comunicazione dei motivi) e procedurali (art. 7 dello Statuto) del licenziamento.

Non c’è pace per imprese e consulenti, “travolti” dalle molteplici norme volte a fronteggiare l’epidemia da COVID-19. Infatti, a leggi, decreti, circolari, note e comunicati stampa, va considerata anche la sentenza 16 luglio 2020, n. 150, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 4 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23. Ma procediamo con ordine, ricordando che tale disposizione disciplina le conseguenze del licenziamento illegittimo comminato a un nuovo assunto (a tempo indeterminato) a partire dal 7 marzo 2015.

Tutele crescenti in origine

L’impianto generale della norma era basato su questi principi:

a) licenziamento discriminatorio, orale e nullo: a prescindere dal numero di dipendenti del datore, sempre la reintegrazione nel posto più un risarcimento minimo di 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto;

b) licenziamento disciplinare illegittimo (datori “grandi”, in generale): no reintegra ma solo risarcimento del danno con un’indennità di 2 mensilità per anno di servizio, con un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità (aumentate a minimo 6 e massimo 36 dal cd. decreto dignità);

c) licenziamento disciplinare illegittimo (datori “grandi” ma solo per manifesta insussistenza del “fatto materiale” posto a base del licenziamento): reintegrazione più risarcimento del danno con un’indennità massima di 12 mensilità;

d) licenziamento disciplinare (datori “piccoli”, sempre): no reintegra ma solo risarcimento del danno con un’indennità di 1 mensilità per ogni anno di servizio (minimo 2 e massimo 6 mensilità, aumentate nel minimo a 3 mensilità dal cd. decreto dignità);

e) licenziamento per giustificato motivo oggettivo (datori “grandi”): solo il risarcimento del danno con un’indennità di 2 mensilità per ogni anno di servizio con un minimo 4 e un massimo di 24 mensilità (aumentate a minimo 6 e massimo 36 dal cd. decreto dignità);

f) licenziamento per giustificato motivo oggettivo (datori “piccoli”): solo il risarcimento del danno con un’indennità di 1 mensilità per ogni anno di servizio con un minimo 2 e un massimo di 6 mensilità (aumentate a minimo 3 e massimo 6 dal cd. decreto dignità).

Accanto a quanto sopra, la norma (all’art. 4) sanzionava i vizi formali e procedurali – ossia la mancata indicazione scritta dei motivi e la violazione della procedura di contestazione disciplinare ex art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 – se il licenziamento era legittimo, con un’indennità (non soggetta a contributi previdenziali) di importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità (la metà nelle PMI, e fino a 6 mensilità).

Su tale impianto normativo la Corte Costituzionale si è sinora espressa in due occasioni, rispettivamente con la sentenza 8 novembre 2018, n. 194, e con la recentissima decisione 16 luglio 2020, n. 150, entrambe relative ai criteri di calcolo delle diverse indennità.

Corte Costituzionale n. 194/2018

Con la prima sentenza, il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 – sia nel testo originario che nel testo modificato dall’art. 3, co. 1, del D.L. 12 luglio 2018, n. 87 (legge 9 agosto 2018, n. 96) – limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”. In pratica, nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio – criterio che prescritto ex art. 1, co. 7, lett. c) legge n. 184/2013 e che ispira il disegno riformatore del D.Lgs. n. 23/2015 – nonché degli altri criteri desumibili dall’evoluzione della disciplina sui licenziamenti (numero dipendenti, dimensioni attività economica, comportamento e condizioni delle parti).

Corte Costituzionale n. 150/2020

Con la seconda decisione, invece, la stessa Corte, con riguardo ai vizi formali e procedurali, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alle parole “di importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”. In tale sentenza, inoltre, si precisa quanto segue:

a) nel rispetto dei limiti minimo e massimo di legge, il giudice, nel determinare l’indennità, terrà conto anzitutto dell’anzianità di servizio, che è la base di partenza della valutazione;

b) in chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato, egli potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la misura dell’indennità aderente al caso concreto: ben potranno rilevare, a tale riguardo, la gravità delle violazioni, enucleata ex art. 18, co. 6, Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla legge n. 92/2012, e anche il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, richiamati dall’art. 8 della legge n. 604/1966, previsione applicabile ai vizi formali nell’ambito della tutela obbligatoria ridefinita dalla stessa legge n. 92/2012;

c) spetta al legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni dalla Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari.

Oggi così le tutele

Nella tabella che segue, è quindi riassunta la disciplina complessiva del D.Lgs. n. 23/2015 oggi vigente dopo i due interventi della Corte Costituzionale sopra ricordati.

FATTISPECIE DATORE “PICCOLO” DATORE “GRANDE”
Licenziamento discriminatorio, orale e nullo Reintegrazione più risarcimento minimo di 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR Reintegrazione più risarcimento minimo di 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR
Licenziamento disciplinare: generalità dei casi Solo risarcimento del danno: da 3 a 6 mensilità * Solo risarcimento del danno: da 6 a 36 mensilità *
Licenziamento disciplinare: manifesta insussistenza del fatto materiale Solo risarcimento del danno: da 3 a 6 mensilità * Reintegrazione più risarcimento massimo di 12 mensilità
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo Solo risarcimento del danno: da 3 a 6 mensilità * Solo risarcimento del danno: da 6 a 36 mensilità *
Violazione procedura disciplinare Solo risarcimento del danno: da 1 a 6 mensilità * Solo risarcimento del danno: da 2 a 12 mensilità *
Mancata indicazione scritta dei motivi Solo risarcimento del danno: da 1 a 6 mensilità * Solo risarcimento del danno: da 2 a 12 mensilità *
Offerta di conciliazione Mezza mensilità per anno di servizio, minimo 1,5 e massimo 6 mensilità 1 mensilità per anno di servizio, minimo 3 e massimo 27 mensilità
* Tra minimo e massimo decide il giudice secondo questi criteri: anzianità di servizio, numero dipendenti, dimensioni attività economica, comportamento e condizioni delle parti.

Come si evince dalla tabella, l’unico caso in cui le “tutele crescenti”, ossia il criterio di calcolo basato solo sull’anzianità di servizio, hanno sin qui “resistito” al vaglio della Corte Costituzionale è quello dell’offerta di conciliazione, disciplinata dall’art. 6 del D.Lgs. in esame.

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